sabato, dicembre 28

Raw meat.

26 Dicembre 2515,
Safeport (Sunset Tower).
Interno notte.


Con una sigaretta incastrata fra i denti, le mani unte di sangue vischioso e scuro, il sangue dei morti, scorre lo sguardo sugli organi allineati sopra il banco di metallo del lettino operatorio. L'aria della sickbay, immobile, è immersa in un silenzio irreale che rende assordante il crepitare della carta divorata dalla brace. Un cervello, un fegato; i resti di un cuore pugnalato; due polmoni, prelevati a due diverse casse toraciche. La lunghissima ghirlanda di un intestino avvolto su se stesso. Marshall ingoia l'accozzaglia di orrori macabri con avidità brutale, come ingoia il veleno custodito tra i fili di tabacco sintetico. Nessuno di questi grumi di carne gli parla, il nome dell'Ingoiatore è tatuato a sangue su ogni lingua decomposta, schiacciato sul palato dei morti ammassati nelle fosse comuni. Nessuno di quei morti glielo ha confessato, e delle chiacchiere dei vivi è riuscito solo a snervarsi. Trascina il fumo nei polmoni, e poi contro il soffitto dell'infermeria. Gli spiriti di Cristobal Oxossi si accalcano nelle lingue grigiastre, sfilano attraverso la luce come nugoli di serpi aggrovigliate e deformi. Se io, Volkov e Sun non siamo morti tra qualche giorno, allora non erano spiriti. Però se lo sono, abbiamo portato via le loro prede e sono incazzati neri. Marshall arriccia gli angoli della bocca in un sorriso crudo, di compiacimento feroce e irrequieto. Non erano spiriti, ma gli spiriti sono incazzati neri lo stesso. Se li sente sulla pelle anche senza crederci. Nei cuori e nei fegati sottratti c'è custodita la rabbia dei corpi depredati. Non può frenare il brivido che gli scorre tra le scapole, serrandogli le labbra sul filtro della sigaretta ed affondando una staffilata d'insofferenza tra le sue viscere ancora intatte, ancora calde. Pulisce le dita di una mano sulla canotta lisa e, scrostato il sangue, trova le macchie d'inchiostro. Per un momento ha l'impressione fugace che le spire di fumo attorcigliate verso il soffitto siano contorni d'ossa. Devi meritartela prima. Come ogni fottuta cosa. Come le risposte che non ha ancora trovato dentro ai cadaveri. Come la pelle dell'Ingoiatore con cui fare un sudario per gli organi allineati sul tavolo, per gli spiriti inquieti dei morti e dei vivi.

Bones è proprio un ragazzino.

martedì, dicembre 17

I'll take the long way home.

17 Dicembre 2515,
Safeport / Bullfinch.
Interno giorno.


"State bene?"
"Siamo vivi, abbiamo scorte per un paio di mesi."
"Poi?"
"Poi non lo so."
"Stronzate."
"… Poi usciamo, cazzo. Usciamo e faremo qualcosa."
"Casa nostra?"
"Dunno."
"…"
"Suze sta bene, ma non so niente di casa. Marsh, ascolta …"
"Saint Andrews è pulito. I culi blu non sono riusciti a sbarcare. Potreste trovare il modo di- …"
"Jeez, stai scherzando? … Christ, vuoi farci emigrare? Come dei profughi del cazzo? È questo che mi stai- …"
"Shit, Mitch, non lo so. Justice e Nina e- …"
"Fuck. Non andremo da nessuna parte, Jesus … Bullfinch non è un pianeta morto, dovessi innaffiare la terra col mio sangue."
"… Right."
"Tu invece?"

All'altro capo del cortex si consuma un silenzio fondo; a Mitchell non serve il collegamento video per indovinare il modo in cui suo fratello si sta masticando il pollice.

"… Devo finire questa cosa. Mi hanno chiesto di restare."
"Di restare."
"Yeah, to keep fighting and stuff."
"Right. … Right, you should."
"… Sì?"
"Fuck, certo che sì. Sarei lì se non avessi- …"
"Io dovrei essere lì. Tu e Nina non dovreste spalare da soli tutta questa mer- …"
"Fuck you, I know shit.“
"..."
"Dun' be such an asshole, lil’ brother. Divertiti."

Marshall gli ringhia di andare a farsi fottere un attimo troppo tardi, Mitchell gli ha già chiuso il cortex in faccia. Liscia l'arcata dei denti con la lingua, buttando il pad sulla branda scalcinata - che ha sfondato a calci nel giorno della presa di Bullfinch, - e rovesciando la schiena larga sul materasso. Intreccia le mani dietro la nuca, chiude gli occhi.
Dal naso gli scappa il fiotto secco di una risata.

Che stronzi, i Lee.

domenica, dicembre 15

Breathe.

15 Dicembre 2515.





Sempre è commovente il tramonto,
per indigente o sgargiante che sia,
ma più commovente ancora
è quel brillio disperato e finale
che arrugginisce la pianura
quando il sole ultimo si è sprofondato.
Ci duole sostenere quella luce tesa e diversa,

quella allucinazione che impone allo spazio
l'unanime paura dell'ombra

 e che cessa di colpo
quando notiamo la sua falsità,

come cessano i sogni
quando sappiamo di sognare.


(Borges)

mercoledì, dicembre 11

"You better run through the jungle."

10 Dicembre 2515,
Bullfinch.


"Marsh … ? Dove cazzo … Mi senti? Marsh?"
"Nina."
"Marsh, Cristosanto … È sangue quello? Sei coperto di- …"
"Non è mio, sta’ zitta e ascolta. Dov’è Mitchell?"
"Non lo so, è andato …"
"Dove."
"È uscito."
"Dove!"
"Non lo so! È uscito, cazzo. Non lo so dov’è andato. Che cazzo succede? Il cielo …"
"Ascoltami."
"… Il cielo sta andando a fuoco."
"Ascoltami!"
"…"
"Trova Mitch, prendete Justice e andatevene."
"Andarcene? Dove …"
"Lo sa lui."
"Che cazzo vuol dire lo sa lui? Fuck, Marsh- …"
"Now, Nina."
"Ok … Ok."
"Sbrigati."
"Vaffanculo. Ti voglio bene."
"Vaffanculo anche a te."


[…]

Le montagne, la pianura, le montagne. Justice tiene gli occhi chiusi, con la testa sulle gambe di sua zia, ma non dorme veramente. A tratti la sua coscienza si squaglia nel sonno, riempiendo il ronzio monotono del motore della jeep con il canto di una sirena, il volo radente di uno stormo di anatre d’oro. A momenti riaffiora, invece, portandole la tensione dei muscoli sottili e nervosi di zia Nina, il martellare della pioggia lungo i vetri e sul tettuccio. Il cielo cade a pezzi da mesi, come ogni anno, ma non c’era mai stato un tramonto così lungo nella vita di Justice. Da un finestrino schiuso le arriva l’odore della terra bagnata, mescolato a quello pungente e fastidioso della sigaretta di suo padre e a uno strano aroma metallico mai sentito prima. Se sbircia attraverso le ciglia riesce a vederne la nuca bionda, ingoiando con la coda dell’occhio il vuoto spaventoso che riempie il sedile accanto al suo. Il cuore le sbatte nel petto come una cavalcata di tuoni, stretto nella morsa angosciante di dita di strega. Le hanno detto che non deve avere paura, ma i bambini sono come ripetitori di carne, e lei sa che non è vero. Vorrebbe che zio Marshall fosse lì perché lui non le dice mai bugie. 

Non sa quanti cervi dalle corna rosse le abbiano sorriso quando la jeep si ferma, e un paio di braccia solide la prelevano dal sedile.



[…]

"Dio, ti prego, fa’ che quello stronzo fottuto se la cavi."

È l’unico, breve pensiero che Mitchell riesce a dedicare a suo fratello mentre, la figlia tra le braccia ed un borsone pesante calcato in spalla, affonda gli scarponi nel fango che scorre come lava gelida fra le asperità del fianco roccioso della montagna. Le fibre nervose e accaldate dei suoi muscoli continuano a pregare e a smaniare rivolte ad est, senza che la sua testa le segua, mentre il maggiore dei Lee concentra ogni lembo della propria razionalità nella complessa operazione di orientarsi sotto il diluvio e la cortina di fumo che ha affollato il cielo di nuvole rossastre. Justice si appende al suo collo e gli tossisce sulla spalla, tremandogli sullo sterno per le lacrime congelate che il vento freddo le fa bruciare sulle guance. Non si lascia scappare un suono, chiudendo i singhiozzi nella chiostra dei minuscoli denti stretti. Nina lo precede con la grazia irruente di uno stambecco, schiacciata sotto il peso dello zaino e del fucile, fermandosi ogni mezza dozzina di metri per voltarsi a cercarlo con gli occhi allargati. Mitchell deglutisce, spazza le rughe della montagna con gli occhi inumiditi dalle sferzate d’aria. Poi spinge il mento in avanti per indicarle la direzione, ma Nina non si muove. È rimasta pietrificata, la bocca schiusa in un verso d’orrore muto, trascinato via dalle raffiche di vento. Voltando la testa, in bilico su uno zigomo di roccia, Mitchell vede i soldati che marciano fuori dalla giungla, attraverso la patina sanguigna della notte sconvolta dai bombardamenti, come uno sciame di formiche blu dalle teste lucenti. Si riversano nei campi ai piedi della montagna, fiancheggiando l’avanzata dei mostri cingolati che mordono e calpestano la pelle di Bullfinch, infettando tutto quello che toccano. La distanza è troppa perché corrisponda un suono ai lampi di luce sulla bocca dei fucili, ma le retrovie dei Confederati vengono trucidate lungo la strada in un massacro di bestie ostinate, incapaci alla resa, che mordono la mano dell’invasore finché questi non apre loro il cranio. I muscoli di Mitchell si rivoltano, schioccando frustate di tensione sotto la pelle, ma il peso di Justice lo tiene ancorato al ciglio di pietra. Gira gli occhi verso l’alto, trova lo sguardo bagnato di Nina e stringe i denti, facendole segno di proseguire.
Sono quasi al sicuro.

venerdì, dicembre 6

Deerskin doll.

5 Dicembre 2515,
Bullfinch (Terza linea).
Interno notte.


"… You are the noise, the elktooth chain … Lovely in the rivers mirror, you stand in my circle … The circle of my center here."

Non è una preghiera, ma una canzone. Marshall la snocciola lentamente nella luce azzurrina delle lampade notturne sospese sopra il letto. La sedia di metallo è scomoda, gli entra nella carne coi suoi spigoli aspri; i muscoli macinano elettricità inerte, si ribellano all'ozio con ogni fibra fervida e vengono costretti violentemente alla quiescenza. La schiena larga è spalmata contro lo schienale scavalcato dalle braccia torte indietro, fino alle gambe posteriori serrate dentro la morsa spasmodica delle dita spesse. Fissa con fascinazione cruda il sangue che scivola dalla sacca appesa, come una carcassa, fino al braccio nudo di Moloko, sbrogliando piano e nervosamente la matassa ruvida della voce che gli pulsa in gola.

"It will take some time to get to this point, remember you are spinnin' around the room … I dare not rest, my hands on my chest. Vashene osh miashte means yes … Means yes."

Si lecca le labbra asciutte, lisciando le gambe metalliche della sedia come le cosce magre di una puttana. Una lunga colata di fiato gli divarica le narici, strusciando gli orli ravvicinati delle scapole intrappolate sotto il tessuto fradicio della canotta. Ogni contrazione dei muscoli è una scudisciata d'ombre liquide, irrigate lungo le braccia ed il plesso solare. Ogni spasmo delle pupille sfocate una rivolta contro il sonno. Rovescia indietro la testa brunastra e disordinata, scollando gli occhi limpidi e spaziosi dal lettino per ribaltarli in faccia alla volta della tenda su cui la pioggia scroscia come un pianto infinito di spilli di ferro.

"The branches all creek together, all out in the open … Inside a roaring figure on the wall. The streets are cobbled just for you, the silver sun in my cellar, well, too … 
I hear … A mocking voice."

Apre una mano con un guizzo del polso insofferente, come dovesse separarne a forza il palmo magnetico dal metallo, sparpagliandosi in testa la conta mal tenuta delle schegge intraviste fra le viscere squarciate di Moloko. Contare e cantare insieme è troppo complicato, respirare aria pulita troppo doloroso.

Si accende una sigaretta.



domenica, dicembre 1

"Hey buddy."

30 Novembre 2515,
Bullfinch (Terza linea).
Interno giorno.



[ Un soldato porterà al capezzale di Marshall (probabilmente in infermeria) un dogo argentino con un guinzaglio a catena. Il cane ha circa tre anni, un temperamento vivace e irrequieto. Sulla targhetta di ferro appesa al guinzaglio, ci sono incise due date (nascita e morte): ' 01.05.2492 / 14.10.2515 ' . Il dogo verrà ceduto di forza al dottore, che probabilmente potrà intuire fin da subito che quel regalo è un dovere morale. Il soldato non fiaterà per tutto il tempo, risultando un muro di gomma e omertà. Cederà malvolentieri, un bigliettino giallognolo, raggrinzito e sbavato dalla pioggia. La calligrafia nervosa, è intrappolata nel tumulto del cuore e del cielo. ]

Il 14 ottobre io, Rooster, Bolivar e altri soldati abbiamo assistito all'abbattimento di uno shangdi alleato, precipitato vicino Providence. Ci siamo introdotti nel relitto per fare dei prigionieri, ma le cose sono andate male. I blues s'erano nascosti, hanno aspettato che ci dividessimo per aprire il portellone della stiva e scappare alla guida dei loro fottuti Thor. Una volta all'esterno hanno lasciato che li accerchiassimo, per poi farsi esplodere. Fottuti kamikaze.
Un massacro, ho scavato fosse e ordinato cadaveri per otto ore di fila, c'era così tanto sangue che neanche il buio riusciva a coprirlo. Malcolm Anderson era uno di quei cadaveri; è morto senza capire, senza guardare negli occhi il nemico, gettato all'aria dalla vigliaccheria. Ventitrè anni di ribellione e una ragazza incinta che ha smesso di aspettarlo. Nessuno ha voluto il suo cane. Nessuno vuole ricordi così ingombranti. Devi tenerlo tu, il dogo adesso starà con te, prenditene cura... ne sei più capace di quanto dai a vedere.

'affanculo
Moloko Cortès


Marshall, seduto sul bordo della branda, scorre la lingua sul labbro superiore arricciato e stropiccia le palpebre arrossate, ficcando l'indice e il pollice dentro le orbite degli occhi come se stesse cercando di rasparli fuori. Accartoccia il biglietto nel palmo della mano e lo getta sul materasso sfatto, affilando un'occhiata ruvida e annacquata dal sonno sul grugno serio del commilitone. Sbircia il cane di traverso, senza girare la testa. Il dogo gli pianta in faccia due occhi neri e rotondi, vividamente stagliati nell'aspettativa del muso massiccio. Il medico schiocca la lingua contro i denti.

"Hey, bello."

‘Hey bello’ spazza l'aria con la coda corta e ricurva, innescando uno scatto di muscoli brutale, festoso, col quale gli schianta la testa larga contro il palmo proteso, travolgendo l'orlo del letto con le zampe anteriori inzaccherate e una chilata di bava. Il neo all'angolo delle labbra di Marshall s'impenna col lembo di carne nel quale è incastonato, arricciando la curva ripida di un ghigno crudo, e gli occhi frustano di taglio il viso di gomma e omertà del soldato silenzioso.

"... Di' a Còrtes che è una stronza."

venerdì, novembre 29

Another girl, another planet.

29 Novembre 2515,
Bullfinch (Timisoara).
Interno notte.


C’è un odore d’incenso e umori stucchevole, a impregnare la piccola mansarda del Golden Steer; le luci dondolanti della main street hanno smesso di ballare dietro i vetri appannati dell’unica finestra. Marshall si sbroglia tra gorghi di lenzuola umide, schioccando il palmo d’una mano sulla nuca sudata, mentre butta le gambe oltre l’orlo del letto e si trascina a sedere. Le assi del pavimento sono ruvide e scheggiate sotto le piante dei piedi scalzi, le spalle troppo pesanti perché riesca a sostenersi senza spalmare gli avambracci sulle cosce.

"Dove vai?"

La voce di Suzie scivola, ovattata, nel fruscio delle coperte. Marshall la sente muoversi piano, ridistribuendo dolcemente i dossi turgidi e le depressioni del materasso sfondato. Non si volta, stiracchiando la schiena nuda per arrivare a sfilare i pantaloni dallo schienale della sedia. La punta di cinque dita morbide, ancora accaldate, gli spiana le vertebre e risale fino all’attaccatura dei capelli, immergendosi fra le ciocche brune per rivoltargliele sul cranio. È una cosa che odia, gli manda un brivido giù per la nuca e innesca uno scrollone svogliato nelle spalle larghe, lucenti di sudore e intrigate di muscoli snelli.

"Non sono venuto per parlare."

"… Sei venuto per scopare."

Non è una domanda, nemmeno una recriminazione; la voce di Suzie si squaglia morbida, sorniona, contro il profilo dell’orecchio cui ha accostato le labbra bollenti. Gli lascia un bacio sopra il lobo e si ritrae, con un guizzo argentino e flessuoso, sprofondando dentro il cuscino.

"È tardi, resta a dormire."

Marshall raspa le tasche dei pantaloni umidicci, districandone a fatica un pacchetto ammaccato di sigarette. Ne sfila una coi denti, gettandosi il resto dietro le spalle.

"C’è troppo da fare."

Si fa dondolare in bocca la sigaretta, picchiettando la base spugnosa del filtro con la punta della lingua, e spazza le ombre spigolose affastellate per la stanza con un’occhiata irrequieta. Suzie si muove, dietro di lui, assestandosi sul fianco per inseguire la trama di muscoli, ossa e cicatrici spalmate sopra e dentro la pelle della sua schiena. Marshall ne sente bruciare gli occhi contro la spalla sinistra, lungo il profilo della nuca cinta dalle piastrine militari.

"Jeez, Chino. – c’è un tale affetto stizzito, in quel solo nomignolo, da spegnergli un brivido giù per la schiena. – … Non ti fermi mai un attimo a respirare, non ti fermi. A dirmi come sta Nina, e Mitch, e la bambina."

Le dita spesse di Marshall quasi spezzano la cicca di netto.

"Shit, stanno bene. Come vuoi che stiano."

Deglutisce, scorrendo il marchio della Black Mamba con occhi chiari in cui la luce si rompe, rimescolandosi al lume dell’unico abat-jour sapientemente deposto accanto al letto.

"… Stanno benone."

"E tu come stai?"

La domanda lo fa torcere d’impeto, i denti digrignati sulla sigaretta spenta. Suzie lo squadra dal basso, abbandonata dolcemente fra le pieghe intrigate del lenzuolo, con la cicca fumante appuntata a un angolo del sorriso languido, scettico; quasi canzonatorio.

"Screw you."

Marshall sputa via il filtro umido della Black Mamba, ribaltandosi del tutto per tornare a conquistarsi la morbidezza cigolante del materasso e le curve compatte della ragazza minuta che ci ha lasciato sopra.

Le monta addosso e non si ferma un attimo. Neanche per respirare.

giovedì, novembre 28

Nobody knows my name, but everybody calls me.

27 Novembre 2515,
Bullfinch (Almost Home).
Interno notte.


Marshall è piegato in due sulle ginocchia. Una mano aggrappata al coperchio sollevato della tazza, l’altra spalmata sul pavimento. Annaspa, smaltendo gli strascichi del conato che gli ha fatto rigettare il residuo scarso, slavaticcio e acre dell’ultima razione ingerita.

"Shit."

Raschia la gola e sputa due, tre, quattro volte; senza riuscire a svuotarsi la testa dalla nausea liquida in cui galleggia il cervello. I muscoli tremano, scossi da spasmi contratti e incostanti che affilano il bordo delle scapole incastonate lungo la curva della schiena nuda. Serra le palpebre, ma l’ondeggiare sfocato di tratti di pelle e spigoli d’ossa torna a rivoltargli lo stomaco come un guanto, al contempo strizzandone i lombi dentro una morsa di dita calde e invisibili. Inspira e deglutisce a fondo. Cerca nel bianco limaccioso dei succhi grastrici gli occhi di Cortes, il ronzio che gli scroscia nelle orecchie si affila lentamente sulla frequenza della sua voce. Tu ci servi dio solo sa quanto e il tuo unico compito è ricucirmi e ributtarmi nel mattatoio ancora e ancora e ancora finché non mi dissanguano e non potrai più aggiustarmi. Tu ci servi dio solo sa quanto e il tuo unico compito è ricucirmi e ributtarmi nel mattatoio ancora e ancora e ancora finché non mi dissanguano e non potrai più aggiustarmi. Tu ci servi dio solo sa quanto. Ancora e ancora e ancora.

"... Shit."

Rantola una risata rotta, piegando la fronte sudata contro il braccio scoperto – ce la sfrega di traverso, incastonando la bocca lucida di umori amari nell'incavo del gomito. Ricucirmi e ributtarmi nel mattatoio ancora e ancora e ancora. E ancora. Il battito cardiaco gli martella fra le tempie. Scolla precipitosamente la mano da terra per snudare, torcendo la pelle, le tacche nere tatuate lungo il corso interno dell'avambraccio. Le fissa, dietro il velo umido del malessere, finché lo sguardo non si sdoppia rimescolando pelle e inchiostro. Il singhiozzo soffocato che gli nasce dentro al petto istiga un nuovo conato violento, ma non ha più niente da vomitare. Finché non mi dissanguano e non potrai più aggiustarmi. Marshall si trascina in piedi, fino al lavello su cui chinarsi e sputare. Sciacqua la faccia con l'acqua fredda, sfregando l'avambraccio unto di bile e saliva sotto il getto. Tira su il mento, incontrando il tumulto limpido degli occhi arrossati, umidi, che lo fissano attraverso lo specchio – non sa perché, ma il suo riflesso gli rimanda un sorriso strafottente.

Il cuore è come un tempio, stronzo.

mercoledì, novembre 20

The straightest way ...

18 Novembre 2515,
Bullfinch (Amarillo).
Interno notte.


Marshall è sdraiato sulla schiena, le spalle scollate dal legno del tavolo per inseguire idealmente la linea protesa delle braccia allungate sopra la testa. Rigira fra le dita spesse il calcio di una Shell Dhole dalla tempra ossidata, che ha l’aria d’essere più vecchia di lui. Ne esamina il profilo massiccio sottosopra, con un occhio strizzato e la testa brunastra rovesciata indietro a snudare l’arco teso del collo. Una gamba piegata, la suola dello scarpone incastrata sull’orlo del tavolo, e l’altra abbandonata verso il pavimento ne fanno un aggraziato ritratto di compostezza ubriaca.
Mitchell è biondiccio, dimostra forse un paio d’anni in più. Avrebbe bisogno di radersi, anche lui, ma le linee del suo viso si snodano con una dolcezza sconosciuta al muso aspro del fratello. Siede allo stesso tavolo, ridotto a un cimitero di birre vuote, che il minore dei Lee ha colonizzato con la schiena larga; spalmato sullo schienale in piena grazia di Dio, con un sorriso stretto fra le labbra e gli occhi chiari, gli occhi di famiglia, che pungolano il fianco altrui.

"Non te l’ho data mica per sparare alle tende, ah?"

"Va' a farti fottere... ’stammerda mi sembra un ferro vecchio, sei sicuro che non mi scoppia in faccia?"

Trova il nome graffiato sotto il calcio, lo spolvera con un soffio e l’avvicina alla cima del naso per spalmarne la linea spezzata contro il culo spigoloso dell’arma – se l’infila quasi in un occhio quando le nocche di Mitchell, affondate brutalmente nella coscia, gli scaricano un sussulto di sorpresa e di dolore lungo i muscoli.

"Fuck... Fuck."

Marshall tenta di rivoltarsi con un colpo di reni frenetico, alla maniera dei cani rabbiosi, ma è troppo innaffiato di Gran Riserva. La pistola crolla sul tavolo con un tonfo, coronato dallo schianto di bottiglie vuote rovesciate in ogni direzione, e Mitchell è più svelto a tirarsi in piedi, barcollante, buttandosi in avanti a peso morto per aprirgli una mano sullo sterno e caricare l’altra contro il suo muso – gli liscia la mascella di misura, schiantando le nocche sul legno con un’imprecazione cruda. Marshall scoppia a ridere, sganciando la suola dello scarpone dal bordo del tavolo per sbatterla sulle costole altrui con un ululato.

"Shit... Gawd ..."

Il maggiore dei Lee tossisce, scansato dalla violenza dell’impatto, incespicando a ritroso e concedendo a Marshall il margine di spazio per issarsi a sedere. Annaspando fra una risata e un ringhio bellicoso, si spinge a terra e accusa, nell’immediato, il cedimento molle delle ginocchia. Gli occhi da lupo, stretti nella feritoia delle palpebre, schizzano in faccia al fratello intercettandone il ghigno sghembo. Il guizzo brutale di muscoli col quale assesta la postura traballante non è svelto abbastanza da evitare che Mitchell l’agguanti per il bavero della canotta, esplodendogli sul grugno una testata carica d’affetto.

Marshall sente la scatola cranica rimbombare di lampi, il sapore ferroso del fiotto grondato sulle labbra, ed allunga le nocche in cerca del muso di Mitchell mentre il mondo gli si capovolge attorno.

Nina li trova per terra, a rotolarsi fra i cocci di bottiglia e il pantano appiccicaticcio dei fondi di birra rovesciati.

Ridono come bambini.



[Bullfinch, 18 Nov. 2515]