sabato, giugno 21

To forgive is to forget.

21 Giugno 2516,
Horyzon (Capital City).


"Sono venuta a dirti che ti ho perdonato."

"Bullshit."



[…]

Abele e Caino s’incontrarono dopo la morte di Abele.

Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella che non aveva ancora ricevuto il suo nome.
Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e, lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca, chiese che gli fosse perdonato il suo delitto.
Abele rispose: 'Tu hai ucciso me, o io ho ucciso te? Non ricordo più: stiamo qui insieme come prima.'
'Ora so che mi hai perdonato davvero. – disse Caino; – perché dimenticare è perdonare. Anch’io cercherò di scordare.'
Abele disse lentamente: 'È così. Finché dura il rimorso dura la colpa.'



[…]

[ A Marshall continueranno ad arrivare lettere con numeri di pagine ogni settimana. Ogni poesia segnalata sembra tracciare un percorso di comprensione: alcune sembrano parlare di Marshall, alcune di Elian, altre di argomenti che in qualche modo si ricollegano a loro, altre non c'entrano niente e sono state scelte solo perché belle. L'ultima che arriva, prima del giorno di scarcerazione di Marshall, è la pagine che riporta alla poesia seguente. ]

A million miles past the finish line

My heels lift

At this imaginary starting line.

The trigger slips;

My heart was racing well before it's time.

Time's running out, it's always running out on me,

As the road up ahead disappears.

 

Though it's all been said,

And this empty dictionary is all that's left,

I'll try to change the world in a single word.

My hands are shaking, ready or not.

Invisible ink well it's all I've got.

So I'll concentrate and pick from these barren trees.

 

Time's running out, it's always running out on me,

Every road I discover disappears under my feet.

Some call it reckless, some call it breathing.

 

Have i said too much or not enough?

Is it overkill or is it giving up,

To measure out the distance of an echo's reach? 

 

If it's all broken mirrors and a chance roll of the dice,

Then I'll risk everything for a glimpse of accidental light.

 

Time's running out, it's always running out on me,

And every road I've discovered disappears under my feet -

Some call it reckless, I call it breathing.

giovedì, giugno 19

What if reality is nothing but some disease?

19 Giugno 2516,
Horyzon / Bullfinch.


Mitchell ha trascinato a letto Justice, l’ha inchiodata sotto le coperte e l’ha ascoltata raccontare degli uomini-ragno che Marshall ha dovuto affrontare, nelle segrete scure e maleodoranti di Capital City, per sopravvivere un altro giorno e poter tornare a casa, quando finalmente avrà trovato le chiavi di Shangri-La e sarà libero di uscire dalla pancia di pietra del Grande Serpente del Core.
Mentre le accarezza i capelli biondi e si assicura che dorma, Mitchell si dice che va bene, qualsiasi storia sua figlia abbia inventato per accettare la condanna di suo zio va bene, qualsiasi cosa le permetta di aspettarlo senza piangere va bene; ma si chiede anche, come gli capita di fare più spesso e più inquietamente ogni anno che passa, se la fantasia di Justice non finirà per ingoiarsi ogni contatto con la realtà.
Nina scrolla le spalle, dice che è ancora piccola, che ogni bambino ha i suoi tempi, e gli confessa che lei, a dieci anni, credeva ancora che un lupo abitasse nell’oscurità sotto il suo letto.
Mitchell ci ride su, le dice che se lo ricorda bene, che lui e Marshall dovevano sempre prenderla in braccio per portarla in bagno durante la notte, perché non toccasse mai il pavimento nei pressi della tana del mostro. Le dice che la giornata giù al ranch degli Hawkins è stata pesante, che ha tutte le ossa rotte e, se non si butta sul letto anche lui, finirà per addormentarsi in piedi.

Il tuo compagno di cella cerca di buttartelo nel culo il terzo giorno. Gli fai saltare due molari e gli prometti solennemente che se ci prova ancora sarai tu a svuotarti le palle nelle sue budella. Lui non ti crede, non sulla parola, e quando ti mette di nuovo le mani addosso l’unica pasticca di Nootropam che sei riuscito a farti dare dalla ragazzina stinta della Blue Sun il tuo cervello se l’è già digerita, per cui lo vedi schiumare e digrignare i denti come un malato di rabbia che vuole strapparti la gola a morsi.
I secondini ti sciolgono i muscoli col manganello elettrificato prima che tu possa misericordiosamente spaccargli a calci la testa, evitandogli che la malattia che non ha se lo finisca fra atroci sofferenze.

Ti spostano in isolamento, e questo è un problema: quando sei a mensa, o nel cortile interno, puoi cercare di indovinare la natura inconsistente delle allucinazioni setacciando le facce degli altri detenuti. Se lo vedono esiste, se non si accorgono di niente, per quanto reale sembri, dev'essere solo dentro la tua testa.
Ma se nella cella sei solo, allora ci siete solamente tu e te stesso a giocare la partita.
E hai scoperto che sei uno che gioca sporco.


Mitchell si rivolta sul materasso come se fosse fatto di chiodi. Il sole è quasi alto oltre le finestre velate di nebbia, e lui non riesce a dormire. Conta le assi del soffitto, poi conta i muscoli indolenziti che gli pulsano sotto la pelle. Si chiede quanto gli costerebbe un viaggio fino a Horyzon, se può permetterselo, se Marshall sarebbe sollevato di vederlo o se gli sputerebbe in faccia. Si dice che Cortes avrà bisogno di aiuto con il bambino. Che forse Cortes avrà bisogno di aiuto anche con se stessa.

Fra le pagine del libro di poesie che ti hanno mandato a volte trovi frasi scarabocchiate a penna da una mano che conosci. Certe volte è la calligrafia esitante di Justice, altre la stessa che ti ha inciso parole d’amore per Bullfinch dietro la schiena. Più spesso, sei convinto che a seminare inchiostro fra i paragrafi stampati sia stata la penna ubriaca di Cortes.
"Il giorno che morirò sarà perché tu eri girato a guardare da un’altra parte, zio."
"Tuo figlio l’ho annegato nel cesso dell’Almost Home, Marshall Lee, perché tu non ci sei e siamo soldati, la guerra non fa prigionieri."
"Guardati le mani, lil’one."
Ti guardi le mani e i polsi lividi, annusando la cancrena che ti sta facendo marcire lentamente dalla punta dei polpastrelli e che va e viene con gli squilibri chimici del tuo cervello, come gli scarabocchi fra le pagine, come i fantasmi dei vivi e dei morti che affollano la tua cella: Sharon viene a trovarti il quarto mese, e le tue preghiere ("ti prego no, ti prego, vattene") non valgono a niente contro il suo fantasma collerico e dolce.
Una notte ti svegli di soprassalto e c’è Volkov, nero come la pelle di un toro, chino sopra di te. Ti respira sulla faccia l’odore acre del semtex esploso, inchiodandoti per le spalle con mani enormi e occhi cupi come due buchi neri incastonati nella carne. Ghigna lentamente, appoggiandoti un panno sul naso e sulle labbra prima di versarti in gola e nei polmoni l’acqua sporca di Safeport, facendoti domande a cui non puoi rispondere in una lingua scivolosa e incomprensibile che è quanto di più simile, nella tua testa, al russo di Koroleva.
Ti contorci e boccheggi, soffocando, finché Volkov ti bacia al centro della fronte madida e strappa via il panno umido dalla tua faccia per dirti: "Respira adesso, ti ho perdonato", e alla sua voce si sovrappone lentamente quella di Elian Chernenko. 


Mitchell, seduto sul bordo del letto, appoggia gli avambracci contro le cosce e sbircia il sole inondare le finestre rigate dai rimasugli di bruma. Tra le dita spesse rivolta nervosamente il cortex pad, cercando da qualche parte, fra le cime degli alberi neri stagliati attraverso il vetro, le parole giuste.



[…]

A partire da un paio di settimane dopo l'esito del processo, Marshall riceverà (dopo un severo controllo dei secondini) un tomo cartaceo decisamente voluminoso. E' una raccolta di poesie degli autori più svariati, che va dai celebri poeti Corer ai più misconosciuti poeti del Rim. Dopo aver ricevuto quel pacco, settimana dopo settimana (molto puntualmente) riceverà una lettera cartacea ogni domenica. Le lettere non sono firmate e non riportano il mittente, e contengono soltanto un bigliettino con sopra scritta una pagina (ogni pagina, una poesia da trovare sul libro). La cosa sembra voler andare avanti per tutta la permanenza di Marshall in prigione. 

 

La prima lettera rimanderà alla pagina della seguente poesia, firmata da una celebre poetessa del Core della seconda metà del (duemila)Quattrocento:


 

The art of losing isn't hard to master; 

so many things seem filled with the intent

to be lost that their loss is no disaster,

 

Lose something every day. Accept the fluster

of lost door keys, the hour badly spent.

The art of losing isn't hard to master.

 

Then practice losing farther, losing faster:

places, and names, and where it was you meant

to travel. None of these will bring disaster.

 

I lost my mother's watch. And look! my last, or

next-to-last, of three loved houses went.

The art of losing isn't hard to master.

 

I lost two cities, lovely ones. And, vaster,

some realms I owned, two rivers, a continent.

I miss them, but it wasn't a disaster.

 

- Even losing you (the joking voice, a gesture

I love) I shan't have lied. It's evident

the art of losing's not too hard to master

though it may look like (Write it!) like disaster. 

venerdì, giugno 13

Maybe everything that dies someday comes back.

12 Maggio 2516,
Bullfinch (Amarillo).
Interno giorno.


"Dagli adulti sentirai sempre dire che c’è un confine sottile fra l’odio e l’amore, ma non è vero per niente. Ascolta me. Il cuore è come un bastone della pioggia."

Justice siede davanti al largo tavolo da pranzo su cui è stato sistemato Hope, un anno, tre mesi, un sorriso sdentato da canaglia e la smania di mettere in bocca qualsiasi cosa placata, di certo solo temporaneamente, dall’attenzione vivida (ma assolutamente distante dalla comprensione) che preme addosso alla cugina. A schiena dritta e le spalle magre impettite, Justice tiene fra le dita un tronco di cactus essiccato, l’ultimo regalo di zia Nina dal mercato di Timisoara.

"… Vedi, se ami molto tutte le conchiglie scivolano da una parte, se odi molto invece se ne vanno tutte dall’altra. Per cui se sei innamorato non puoi odiare molto, e se odi troppo non lo so mica se ti puoi innamorare, right?"

Rivolta il bastone della pioggia in verticale, ascoltando a occhi chiusi lo scroscio cristallino di conchiglie levigate verso il fondo.

"Devi stare molto attento al verso in cui giri il tuo cuore, kiddo, perché l’odio è così pesante che a volte non si riesce più a rimetterlo dritto."

"Jeez, ma senti."

Justice sussulta e si volta mentre la sagoma aspra e affusolata di Marshall si affaccia dentro la cornice della porta inondata di sole.

"… Guarda che non funzioniamo mica tutti allo stesso modo, Jay-Lee."

La bambina spreca uno dei suoi rari sorrisi, alza le spalle.

"Ma tu sì, zio. No?"



14 Giugno 2516,
Horyzon (Dogtown).

Tutti quelli che hai odiato e che odi ti hanno tolto qualcuno che amavi, ed è per questo che adesso odi tanto Elian.

Ti ha portato via Elian.

mercoledì, giugno 11

Fortress.

14 Giugno 2507,
Blackrock (Sedona Rift).
Interno giorno.


Il sudore cola lungo la pelle come l’umidità condensata sulle pareti interne della grande tenda inchiodata sotto il sole di Dào. Manca ancora qualche ora al tramonto, quando la carezza abrasiva del giorno si lascerà inghiottire dalle sfumature rosate dell’orizzonte roccioso insieme alla calura arida che il panneggio dell’infermeria da campo trasforma, come una serra, in un sudario d’afa soffocante.
Un rivolo pesante e salato scorre lungo il naso di Marshall, che torce il muso contro la spalla per evitare che goccioli fra le carni aperte che sta ricucendo. La canotta fradicia gli sta incollata addosso come una seconda pelle. Come l’urgenza di farsi.
Non sa esattamente da quante ore se ne sta accosciato accanto alla lettiga posata, per mancanza di spazio, direttamente sul telo teso sopra la terra calda del Deserto Rosso, ma il ragazzo di vent’anni sdraiato nella poltiglia del proprio browncoat invischiato di sangue non ha ancora riaperto gli occhi dal momento in cui sono riusciti a portarlo dentro.
Pallido come un cadavere, la sua carne bianca rende le strisciate rosse che la imbrattano fluorescenti come certi fiori che Lee ha visto sbocciare lungo le strade di Oracle.
Non sa da quante ore sta cercando di tenere il soldato ferito, che forse si chiama Beltran o forse Custer (le piastrine non gliele ha neanche guardate, tanto non hanno più sacche da trasfusione), non sa da quanto sta cercando di tenerlo appeso al filo sottile della vita, ma sa che si è infilato in vena l’ultima dose almeno quattordici ore fa e le dita callose ormai cominciano a masticargliele i crampi. Il rosso vivo del sangue fresco gli si squaglia dentro agli occhi come i ceri sciolti sui banchi di legno nelle chiese di Timisoara e di Amarillo.
Il fruscio della lunga gonna che si ammucchia sul pavimento gli schiaffeggia i sensi intorpiditi e trascina lo sguardo contro il viso lentigginoso e affilato, bruciato dal sole a una maniera che le rende la pelle rossiccia quasi quanto la spessa treccia appesa dietro le spalle, della donna scivolata a sedere sui calcagni all’altro capo del lettino.

"Le tue suture sono imprecise."

Joan Greene ha quasi quarant’anni e una faccia scavata dal sole di Rio Verde come le crepe sulla pelle di Salinas Grandes; due labbra troppo asciutte e zigomi alti come scogliere. Trascina lungo l’addome del soldato gli stessi occhi limpidi e penetranti che arpionano il volto madido dell’uomo, oltre dieci anni più giovane di lei, accartocciato a ricucire il solco slabbrato delle schegge sparpagliate nella carne da un colpo di mortaio.

"Una sutura imprecisa può voler dire cheloidi, aderenze, cancrena. – quando la donna allunga una mano ossuta per sfilare l’ago viscido di sangue alle sue dita spesse, Marshall spiana le spalle con una smorfia indolenzita e vagamente guardinga. – … Può voler dire un soldato morto."

Lee non ha niente da dire mentre strofina i polpastrelli insanguinati sulle pieghe della canotta madida, poi fra i capelli brunastri e altrettanto sfatti.
I suoi occhi appannati inseguono l’ago ricurvo dentro la pelle del soldato con fascinazione riluttante; i gesti svelti e accurati della dottoressa Greene gli piantano sotto pelle un formicolio nervoso e, in fondo allo stomaco, un seme d’ammirazione germogliato nell’insofferenza.
Nei mesi trascorsi su Blackrock ha imparato a interpretarne i cenni impercettibili, silenziosi come battiti di ciglia: le passa la garza, le bende, il disinfettante rimasto nel flacone quasi vuoto. Come dosa le scorte mediche, Joan Greene dosa la voce asciutta e l’ampiezza dei propri gesti come se potesse centellinarle per durare più a lungo, dormire di meno e lavorare di più. I suoi turni a Marshall sembrano sempre più lunghi, l’ombra livida sotto i suoi occhi sempre più densa.

"Ti sei arruolato per morire?"

… Non si accorge che, una mano aperta contro la fronte gelida e sudata del soldato ferito, Joan è tornata a consumarlo con la severità abrasiva, brillante, degli occhi verdi come il cuore umido dell’agave. Lee deve frugarsi addosso con qualche virata nervosa delle pupille prima di trovare la traccia dello sguardo altrui lungo l’interno martoriato dei propri avambracci nudi, scintillanti di sudore. Rivolta la testa con uno scrollone nervoso, arricciando il labbro superiore in una smorfia tesa sul confine del ghigno.

"Ma chi cazzo ti credi di essere …"

"Il tuo ufficiale medico." – Joan non sorride; fissa Marshall con una severità altera, inoppugnabile, scolpita fra gli spigoli del viso magro in punta di coltello.

Lee trascina il palmo calloso di una mano contro la pelle indurita dai segni dell’ago. Deglutisce un mattone di saliva e di nausea, sostenendo la pressione degli occhi altrui con lo sfarfallare delle ciglia scure elettrizzate dall’astinenza.

"Una cannula da trasfusione. – Greene dispensa ordini con la calma di pietra di un generale; – Il tuo sangue fa schifo, ma è meglio di niente. Aiuterà questo bravo ragazzo a passare la notte."

Cerca la mano del soldato e la stringe fra le dita scarne, umide del sangue ripulito sommariamente contro il panno scuro della gonna, come se, più che confortarlo, dovesse assicurarsi che abbia qualcosa cui aggrapparsi per non scivolare nel gorgo nero della morte.
Insegue lo spostamento di Marshall con una scorsa lenta degli occhi, richiamandolo prima che sia oltre la portata della propria voce.

"Altri morti qui non mi servono, kiddow. Put yourself together."


 
Too many fallen, too many failed.