venerdì, marzo 21

Sometimes love is not enough and the road gets tough, I don't know why.

21 Marzo 2516,
Safeport (Jackmark).
Esterno notte.


Patrick 'Night Stalker' O’Malley ha già perso qualche dente a causa della droga, le gengive gli si sono fatte molli ed insensibili negli anni spesi a coltivare con dedizione la dipendenza. Ma l’impatto che gli fa rimbalzare in bocca il molare sinistro lo sente penetrare nel cervello come lo schianto luminoso di un fulmine. La testa gli finisce contro lo spigolo sbreccato di un gradino, rovesciata indietro col suo strascico di capelli unti. Il sapore del sangue è lo stesso dei cucchiai leccati per pulire via i residui di switch. Da qualche parte sa, confusamente, che se non smette di sorridere gli arriverà un altro pugno, ma ha le labbra rotte atrofizzate lungo una china ebbra e disorientata. Non è sicuro se le nocche che gli si sono lacerate contro ai denti e ad ogni spigolo del viso gonfio appartengano a qualcuno a cui deve dei soldi, o soltanto a uno stronzo smanioso di strappargli via il ghigno dalla bocca e gli ultimi cinque grammi dalla tasca. Tossisce fuori il sangue che gli sta chiudendo la gola e pensa che se solo questo stronzetto lo avesse preso da sobrio adesso sarebbe lui a massacrargli le gengive. Ma a ripensarci non ricorda più bene l’ultima volta che è stato sobrio, o in pari coi debiti che gli riempiono le tasche. Si accorge indistintamente che i pugni hanno smesso di piovergli addosso, ma non ne è davvero sicuro, perché gli sembra che ogni tratto del corpo sia diventato insensibile e stia allo stesso tempo andando a fuoco. Si sente trascinare verso l’alto per il bavero scucito della camicia, la pressione di un paio di labbra sull’orecchio e la nerbata di fiato bollente che, colandoci dentro, lo fa rabbrividire.



21 Marzo 2505,
Bullfinch (Providence).
Interno notte.


Sharon si stringe nelle spalle e rabbrividisce per il freddo che le gocce d’acqua gelida le trascinano addosso, mordendo la carne intirizzita ed ammortizzando col freddo il pulsare sordo dei lividi. Dorian le gira attorno come un cane mortificato, tendendole il telo di stoffa con cui asciugarsi in punta di dita, col viso girato a sbrogliare occhiate nervose in pasto alle assi del pavimento. Il sudore gli ha incollato alla fronte i riccioli sfatti, l’alcol ha reso pesanti le lacrime che gli rigano le guance.

"I’m sorry … God, I'm so sorry."

Sharon strattona il telo e se lo getta addosso, sfregando la pelle nuda e increspata dal freddo. È talmente bagnata che le sue, di lacrime, si sono perse fra le perle d’acqua che le rigano la faccia.

"… Ti ho vista parlare con Jack Noon, stamattina, e quando sei entrata avevi il suo odore addosso e il segno dei suoi occhi dappertutto, co- … Così io- …"

"Fuck you, Dorian, quanto hai bevuto?"

La voce rotta e tremante di Sharon gli sguscia sotto la pelle, strappando alla carne un brivido incerto. Solleva il mento ispido per scorrerle addosso, dal basso, gli occhi verdi e annacquati, bordati di palpebre gonfie ed arrossate. Alza le spalle.

"Un paio di bicchieri."

Il minuscolo monolocale alle spalle dell’officina è impregnato di un odore di whiskey stantio che basterebbe a smentirlo se anche la ragazza intirizzita che ha di fronte fosse cieca, ma Sharon sa trovargli addosso i segni dell’alcol come ha imparato con suo padre e i suoi fratelli. Si stringe addosso il drappo di cotone pesante, già umido, e spinge contro la faccia di Dorian occhi così chiari da scottarlo come pezzi di ghiaccio.

"Jeez, Dorian, io ti amo, ma tu non puoi- …"

La voce di Sharon gli gela il sangue e serra le viscere in un pugno di dita invisibili, che quasi lo fanno vacillare per la nausea colata insieme al panico fra le tempie. Passa le mani sul viso per asciugare la pelle coi palmi callosi due, tre volte, frettolosamente, mentre sbroglia fiotti di voce nervosa da sovrapporre alla sua.

"Lo so, lo so. Mi dispiace, Shy, mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace."

Scivola a sedere sui talloni, poi con le ginocchia sul pavimento; le dita intrigate fra i capelli e il mento chino fra le clavicole, le ripete le sue scuse come un mantra. Ma sa che per ogni livido che le lascia addosso si sente meno in colpa, che ogni sorso di whiskey lo avvicina ogni giorno all’insensibilità. Vorrebbe avvertirla, ma lei scapperebbe fra le braccia di un altro e lui ne morirebbe – non prima di averla ammazzata. E se c’è una cosa che non vorrebbe mai fare a Sharon, quel qualcosa è ucciderla.

"… Mi dispiace."

Sharon tira su dal naso e tossisce, si copre la testa con il telo per strofinare i capelli, fradici della secchiata d’acqua che le è arrivata in faccia prima del primo pugno, e per scappare alla vista di Dorian. In testa le rimbombano la voce di suo fratello Marshall, l’eco degli sguardi apprensivi di Mitchell, dei suoi ‘Come va?‘ mai invadenti quanto l’affetto che riesce a iniettarle sotto pelle, come un veleno, solo aprendole una mano sulla spalla. Riapre bruscamente gli occhi per sfilarsi al nodo di angoscia che le ha stretto le viscere e sorride lentamente, aprendo i lembi della coperta per invitare Dorian a infilarcisi con lei.

"Vieni, andiamo a dormire dentro la Rita Lee."

La Firefly che Dorian sta rimettendo in sesto da mesi li aspetta di là dal muro, stretta fra le pareti dell’officina che Sharon sogna, un giorno non troppo lontano, di vederle crollare intorno nel boato dei post bruciatori accesi per il decollo. Quando partiranno per lasciarsi alle spalle Bullfinch, i suoi boschi desolati quanto la gente che li abita, la prepotenza delle leggi scritte sulla pelle dei campi con l’ignoranza sgraziata di un aratro. Quando lei potrà dimenticare di essere nata con qualcosa di meno degli uomini, e l’amore per se stessa riempirà il vuoto insostenibile di quello della famiglia lontana, e quando Dorian scorderà la sua ed il dolore che lo ha reso pazzo.
Quando il ’Verse li guarirà.



21 Marzo 2516,
Safeport (Jackmark).
Esterno notte.


Marshall si piega accanto alla testa di Patrick e gli molla un paio di schiaffi contro la guancia tumefatta, assicurandosi che sia sveglio abbastanza da ascoltare.

"Non farti più vedere intorno a tua figlia, daddy, o questa faccia da sfigato te la strappo e vediamo se piace almeno ai cani."

Gli lascia una pacca sulla spalla e si trascina in piedi, poi ci ripensa. Si china a frugargli le tasche e ci trova la bustina di switch. Se la fa saltare tra le dita, la rigira, la scuote a mezz’aria e poi se la infila nei jeans.

"Sorridi, stronzo." –  prima di voltarsi gli sputa in faccia un bolo di sprezzo vischioso.

Tutto intorno, Sunset Tower calpesta la primavera con indifferenza.

lunedì, marzo 10

Can you teach me how to dance real slow?

8 Dicembre 2503,
Bullfinch (Amarillo).
Interno notte.


Il lento che riempie l’unico saloon di Amarillo sbroglia le sue note in grappoli dolciastri di pianoforte e banjo, striscia sulle assi di legno rovinate e appiccicaticce di liquore versato. Non è rimasto quasi nessuno ad aspettare l’orario di chiusura. Samuel, dietro il bancone, lava piatti e bicchieri usati con l’aria un po’ malferma di chi abbia aiutato a svuotarne molti; Tom Hawkins smaltisce la sbronza dormendo sul pavimento e Logan Johnson accartocciato su una sedia con la testa appesa sopra lo schienale. Nina, sdraiata a pancia in sotto su un letto di tavoli accostati, guarda il pianista con aria incantata ed il mento appoggiato sull’incrocio delle braccia nude. Mitchell e Maryanna si sono dileguati da un pezzo.

"Dovresti imparare a ballare, Chino, o non ti troverai mai una donna."

Sharon dondola aggrappata al collo spesso di Marshall con le spalle gettate indietro ed il viso rovesciato in alto, gli occhi socchiusi ed un sorriso rapito a sollevarle gli zigomi arrossati. Gli occhi chiari, stretti fra le ciglia brune, hanno quel lucore magico e sospeso fra la lucidità e l’ebbrezza. Non è una ragazza minuta, solida di muscoli bene aderenti alle ossa, ma il minore dei Lee non fa granché fatica a sostenerla per i fianchi, le braccia allacciate dietro la sua schiena e ondate di equilibrio incerto a farli traballare entrambi fra una gamba e l’altra.

"Non sapevo di avere problemi a trovarmi le donne."

Sharon strizza le palpebre per sbirciare con un solo occhio aperto il ghigno di suo fratello, sospirando un fiotto d’aria calda attraverso le narici ed appendendo sulle labbra morbide un sorriso indulgente.

"Una che resti e che si prenda cura di te."

"Jeez … Non me ne serve una, ho già te."

Il grumo d’ironia spalmato, come burro, nella voce e sulla curva del sorriso di Marshall non è abbastanza da impedire a Sharon di raddrizzare la nuca per guardarlo dritto in faccia, spingendo nei suoi occhi un bagliore colpevole delle pupille dilatate dall’alcol e dall’illuminazione fioca del saloon. Nel sorriso dolciastro, nella piega dolente delle sopracciglia brune, suo fratello le trova fra i lineamenti gentili l’impronta angosciata dell’animale in gabbia. Se la ingoia insieme a un mattone di saliva, aprendole una mano ruvida al centro delle scapole.

"… Dovresti insegnarmi."

Sharon allarga gli argini del sorriso e si stringe nelle spalle, piegando il viso nell’incavo della sua gola.

"I will."



26 Gennaio 2505,
Bullfinch (Timisoara).
Interno notte.


"Fuck. Non posso credere che mi racconti queste stronzate." – Marshall molla il braccio nudo di Sharon con uno strattone che la fa barcollare, aggiungendo il segno rosso di cinque dita spesse al livido che già le ha scurito un buon tratto di pelle abbronzata.

"Sono solo caduta durante l’allenamento."

"È stato quel testa di cazzo con cui te la fai adesso?"

"Dorian non mi ha toccata, sono solo- …"

"Bullshit."

Sharon deglutisce, appoggiata alla parete di legno, mentre suo fratello misura il pavimento sterrato della stalla senza una meta, rincorrendo la propria rabbia come un cane si rincorre la coda. I cavalli stipati nei box, come fiutandone la tensione, raspano la paglia con gli zoccoli e sbrodolano qualche nitrito nervoso. Marshall le gira le spalle larghe, frementi di muscoli increspati sotto pelle, e poi torna a voltarsi bruscamente per rivoltarle incontro un sorriso reso ripido dall’insofferenza.

"Pensi che quello stronzo ti porterà via da qui, kiddo? Pensi veramente che rimetterà mai a posto quella nave, e ve ne andrete veleggiando nello spazio come se tu fossi l’eroina di un romanzo da due soldi."

"Ti darebbe così fastidio, Marsh?"

Sharon si scolla dal muro con uno spasmo brutale di frustrazione, innescando il dondolio molle di un paio di selle appese al chiodo.

Marshall le sbatte in faccia uno sguardo disorientato.

"… Perché mi vorresti qui, per sempre, inchiodata alla sella di qualche stallone nell’arena di New Dallas o di Providence, a portata di mano, a- …"

"Cristosanto, Shaz, a te piace il rodeo!"

"Certo che mi piace! È il modo in cui Jacob Thornton e Tim Miller e tutti gli altri mi tengono gli occhi addosso, come se fossi anche io una bella puledra da ingravidare, a non piacermi. Il modo in cui tu mi tieni gli occhi addosso per controllare che quella stupida femmina di tua sorella non si faccia male cadendo! – lo trapassa con occhi spalancati, così simili ai suoi, in cui la rabbia sfuma lentamente nella contrizione ferita. – … Non guardi mai, mai Mitchell nello stesso modo."

"E pensi- … Tu pensi veramente che questo Beckett sia diverso. – Marshall affonda cinque dita fra i capelli sfatti e se li rivolta sul cranio nervosamente, raspandosi la testa come se il bruciore della cute potesse essere la chiave per decifrare lo sguardo sconosciuto di sua sorella. – Uno stronzo che ti riempie di lividi."

"Ti ho detto che sono caduta."

"Christ, caduta. Dovrei spezzargli le ossa."

"Don’t. You. Dare. Marshall Lee."

L’inflessione secca, categorica, nella voce di Sharon gli schiocca sulla pelle come un colpo di frusta e dilata gli occhi affilati di Marshall con un guizzo di smarrimento attonito. Incassa la testa fra le spalle, deglutisce; sfoga il terremoto collerico dei muscoli sputando a terra un bolo di saliva.

"Yeah, fuck you. Fuck him. Fuck everybodey."

Le strappa gli occhi di dosso e si volta per imboccare la porta.



10 Marzo 2516,
Safeport (Sunset Tower).
Interno notte.


Nei bagni dell’infermeria di Sunset Tower non trovi un quarto dell’igiene che ti aspetteresti in un ospedale, ma a Marshall della pulizia non importa granché mentre fronteggia la tazza del cesso a spalle curve, la schiena larga inclinata perché la fronte raggiunga il sostegno gelido delle piastrelle crepate alle spalle del gabinetto. Inspira ed espira lentamente, ingoiandosi l’aria maleodorante a boccate ingorde. Dalla tasca del camice spiegazzato e fradicio di sangue, infilato aperto e con poca cura su vestiti altrettanto malridotti, cava fuori i cinque grammi di bloom che ha chiesto all’ultimo paziente per avergli ricucito lo stomaco. La bustina di plastica sigillata è morbida fra le dita, l’erba essiccata che contiene sembra di qualità. Strizzando le palpebre, respira a fondo il tanfo di fogna per liberarsi il cervello dal ricordo allettante del fumo dolciastro che gli ha frustato le narici e aperto una voragine sotto lo sterno. In tasca, da qualche parte, ha tabacco sintetico e cartine per girarsi una sigaretta. Sarebbe questione di un attimo. Due tiri e poi giù dentro lo scarico. Due tiri soltanto. A occhi chiusi, galleggia nel buio custodito sul retro delle proprie palpebre coi muscoli tesi e frementi di desiderio inquieto. Scolla la fronte dalla parete solo per tornare a sbattercela; piano, poi più forte. Il dolore che gli rimbomba nella scatola cranica strappa alle narici lo sbuffo di una risata frustrata. Ha così voglia di farsi che gli sembra di essersi infilato l’ultimo ago in vena due giorni fa. Due ore fa. Due tiri. Solo due tiri. Un buco solo per ricordarsi dei vecchi tempi.

"…"

Gli scorre lungo la schiena un brivido di turbamento e sgrana gli occhi nella gola vuota e spalancata del cesso, ansimando fuori lo strano grumo di languore e disperazione che gli è germogliato in petto. Sputa nella tazza e poi ci lascia cadere la bustina di bloom. Un vortice d’acqua sporca trascina via la tentazione, e in bocca gli resta solo la voglia di piangere.

Invece ghigna masticando una bestemmia.

giovedì, marzo 6

"Hope."

6 Marzo 2516,
Safeport (Sunset Tower).
Interno giorno.


Marshall la trova addossata spalle al muro, le natiche imbullonate al pavimento non così pulito dell’infermeria di Sunset Tower, lo sguardo perso, ma vivido di attenzione mal distribuita fra i degenti e le ombre sconclusionate che proiettano fra le pareti. Lui ha ancora i jeans imbrattati del sangue di Volkov che ci ha pulito sopra, tatuando sul tessuto la sbavatura rossa di dieci dita, il mozzicone di una sigaretta quasi spenta incastrato sotto ai denti; si piega a sedere sui calcagni, inchiodando le scapole larghe alla parete, e allunga le dita spesse per ghermire la piuma di falco che le pende fra i capelli. Ne strattona l’estremità, assaporandone la consistenza fra polpastrelli collosi, e Moloko scrolla il muso come un cane sfastidiato. Volta la testa bionda per sciupargli la faccia con occhi umidi di verde e animati da un fervore disorientato e febbricitante. La paura le mangia le viscere un morso alla volta per fare spazio al bambino che le ha gonfiato il ventre, ma nel sangue le si agitano sciami di eccitazione e incoscienza come anticorpi sbandati e in rivolta. Marshall s’ingoia le rughe da tossica che le tagliano la pelle, la brutta cicatrice sulla guancia, l’ombra livida delle occhiaie. Rinuncia a rubarle il trofeo annodato al caschetto sfatto, affidando ai fili di paglia stinta il ricordo di Mordecai Adler e curvando le spalle spaziose per sporgersi incontro alle sue labbra. Ci parla dentro, spingendole in gola un fiotto di fumo e voce per essere certo che l’eco raggiunga ogni angolo vuoto delle stanze rimaste sfitte nel suo cuore.

"Sometimes you feel so many things at once you wanna vomit."

Non ha mai imparato a dire niente di più utile che la verità.




[Sulla parete di fondo della cabina ha spremuto tubetti di tempera sintetica fino a rivestire la lamiera di sbavature pastose, di marroni secchi e bianchi umidi, e ombre nere da tagliarsi col coltello. Non è un panorama ridente quello che si travede di là dalle strisciate astratte di vernice, spalmate con mani e dita senza nessun talento ed alcuna cognizione d’arte; i colori cupi e sbiaditi si mischiano sfumando l’uno nell’altro sul metallo, come gli occhi di un sogno spalancato sulla foschia brumosa del primo mattino nelle foreste ai piedi delle St Louis Mountains, quando il sole filtra debole tra le fronde rigogliose degli alberi scuri e fitti come colonne erette a reggenza del cielo – prima che le bombe schiantassero sulla pelle di Bullfinch, dilaniandola e accatastando carcasse di legno marcio e crateri nel bosco.]


[…]


Ti ho lasciato i tubetti colorati così, puoi disegnarmi sulla pancia ora che è abbastanza grande. E' l'unico modo per spiegare a tuo figlio com'era Amarillo prima di conoscere l'odore di esplosivo, gli stivali dei blues e i fucili carichi della paura. E' l'unico modo per fargli sapere da dove vieni, da dove vengono le persone che un giorno... saranno le costole che lo terranno insieme quando la terra si spaccherà per centinaia di chilometri e ingoierà tutti i suoi compagni, le sue speranze e le illusioni. Le parole non sono mai abbastanza e tu non le sai usare, ma puoi disegnargli l'arena dove hai cavalcato un toro per la prima volta, la strada dove ti hanno spaccato la faccia per la prima cazzata che hai detto, la finestra che hai rotto a furia di lanciarci sassi e bestemmie, le montagne che hai scalato, il fiume dove ti sei buttato.

Puoi dirgli un sacco di cose con tutte e cinque le dita.

Moloko_