giovedì, marzo 6

"Hope."

6 Marzo 2516,
Safeport (Sunset Tower).
Interno giorno.


Marshall la trova addossata spalle al muro, le natiche imbullonate al pavimento non così pulito dell’infermeria di Sunset Tower, lo sguardo perso, ma vivido di attenzione mal distribuita fra i degenti e le ombre sconclusionate che proiettano fra le pareti. Lui ha ancora i jeans imbrattati del sangue di Volkov che ci ha pulito sopra, tatuando sul tessuto la sbavatura rossa di dieci dita, il mozzicone di una sigaretta quasi spenta incastrato sotto ai denti; si piega a sedere sui calcagni, inchiodando le scapole larghe alla parete, e allunga le dita spesse per ghermire la piuma di falco che le pende fra i capelli. Ne strattona l’estremità, assaporandone la consistenza fra polpastrelli collosi, e Moloko scrolla il muso come un cane sfastidiato. Volta la testa bionda per sciupargli la faccia con occhi umidi di verde e animati da un fervore disorientato e febbricitante. La paura le mangia le viscere un morso alla volta per fare spazio al bambino che le ha gonfiato il ventre, ma nel sangue le si agitano sciami di eccitazione e incoscienza come anticorpi sbandati e in rivolta. Marshall s’ingoia le rughe da tossica che le tagliano la pelle, la brutta cicatrice sulla guancia, l’ombra livida delle occhiaie. Rinuncia a rubarle il trofeo annodato al caschetto sfatto, affidando ai fili di paglia stinta il ricordo di Mordecai Adler e curvando le spalle spaziose per sporgersi incontro alle sue labbra. Ci parla dentro, spingendole in gola un fiotto di fumo e voce per essere certo che l’eco raggiunga ogni angolo vuoto delle stanze rimaste sfitte nel suo cuore.

"Sometimes you feel so many things at once you wanna vomit."

Non ha mai imparato a dire niente di più utile che la verità.




[Sulla parete di fondo della cabina ha spremuto tubetti di tempera sintetica fino a rivestire la lamiera di sbavature pastose, di marroni secchi e bianchi umidi, e ombre nere da tagliarsi col coltello. Non è un panorama ridente quello che si travede di là dalle strisciate astratte di vernice, spalmate con mani e dita senza nessun talento ed alcuna cognizione d’arte; i colori cupi e sbiaditi si mischiano sfumando l’uno nell’altro sul metallo, come gli occhi di un sogno spalancato sulla foschia brumosa del primo mattino nelle foreste ai piedi delle St Louis Mountains, quando il sole filtra debole tra le fronde rigogliose degli alberi scuri e fitti come colonne erette a reggenza del cielo – prima che le bombe schiantassero sulla pelle di Bullfinch, dilaniandola e accatastando carcasse di legno marcio e crateri nel bosco.]


[…]


Ti ho lasciato i tubetti colorati così, puoi disegnarmi sulla pancia ora che è abbastanza grande. E' l'unico modo per spiegare a tuo figlio com'era Amarillo prima di conoscere l'odore di esplosivo, gli stivali dei blues e i fucili carichi della paura. E' l'unico modo per fargli sapere da dove vieni, da dove vengono le persone che un giorno... saranno le costole che lo terranno insieme quando la terra si spaccherà per centinaia di chilometri e ingoierà tutti i suoi compagni, le sue speranze e le illusioni. Le parole non sono mai abbastanza e tu non le sai usare, ma puoi disegnargli l'arena dove hai cavalcato un toro per la prima volta, la strada dove ti hanno spaccato la faccia per la prima cazzata che hai detto, la finestra che hai rotto a furia di lanciarci sassi e bestemmie, le montagne che hai scalato, il fiume dove ti sei buttato.

Puoi dirgli un sacco di cose con tutte e cinque le dita.

Moloko_