lunedì, marzo 10

Can you teach me how to dance real slow?

8 Dicembre 2503,
Bullfinch (Amarillo).
Interno notte.


Il lento che riempie l’unico saloon di Amarillo sbroglia le sue note in grappoli dolciastri di pianoforte e banjo, striscia sulle assi di legno rovinate e appiccicaticce di liquore versato. Non è rimasto quasi nessuno ad aspettare l’orario di chiusura. Samuel, dietro il bancone, lava piatti e bicchieri usati con l’aria un po’ malferma di chi abbia aiutato a svuotarne molti; Tom Hawkins smaltisce la sbronza dormendo sul pavimento e Logan Johnson accartocciato su una sedia con la testa appesa sopra lo schienale. Nina, sdraiata a pancia in sotto su un letto di tavoli accostati, guarda il pianista con aria incantata ed il mento appoggiato sull’incrocio delle braccia nude. Mitchell e Maryanna si sono dileguati da un pezzo.

"Dovresti imparare a ballare, Chino, o non ti troverai mai una donna."

Sharon dondola aggrappata al collo spesso di Marshall con le spalle gettate indietro ed il viso rovesciato in alto, gli occhi socchiusi ed un sorriso rapito a sollevarle gli zigomi arrossati. Gli occhi chiari, stretti fra le ciglia brune, hanno quel lucore magico e sospeso fra la lucidità e l’ebbrezza. Non è una ragazza minuta, solida di muscoli bene aderenti alle ossa, ma il minore dei Lee non fa granché fatica a sostenerla per i fianchi, le braccia allacciate dietro la sua schiena e ondate di equilibrio incerto a farli traballare entrambi fra una gamba e l’altra.

"Non sapevo di avere problemi a trovarmi le donne."

Sharon strizza le palpebre per sbirciare con un solo occhio aperto il ghigno di suo fratello, sospirando un fiotto d’aria calda attraverso le narici ed appendendo sulle labbra morbide un sorriso indulgente.

"Una che resti e che si prenda cura di te."

"Jeez … Non me ne serve una, ho già te."

Il grumo d’ironia spalmato, come burro, nella voce e sulla curva del sorriso di Marshall non è abbastanza da impedire a Sharon di raddrizzare la nuca per guardarlo dritto in faccia, spingendo nei suoi occhi un bagliore colpevole delle pupille dilatate dall’alcol e dall’illuminazione fioca del saloon. Nel sorriso dolciastro, nella piega dolente delle sopracciglia brune, suo fratello le trova fra i lineamenti gentili l’impronta angosciata dell’animale in gabbia. Se la ingoia insieme a un mattone di saliva, aprendole una mano ruvida al centro delle scapole.

"… Dovresti insegnarmi."

Sharon allarga gli argini del sorriso e si stringe nelle spalle, piegando il viso nell’incavo della sua gola.

"I will."



26 Gennaio 2505,
Bullfinch (Timisoara).
Interno notte.


"Fuck. Non posso credere che mi racconti queste stronzate." – Marshall molla il braccio nudo di Sharon con uno strattone che la fa barcollare, aggiungendo il segno rosso di cinque dita spesse al livido che già le ha scurito un buon tratto di pelle abbronzata.

"Sono solo caduta durante l’allenamento."

"È stato quel testa di cazzo con cui te la fai adesso?"

"Dorian non mi ha toccata, sono solo- …"

"Bullshit."

Sharon deglutisce, appoggiata alla parete di legno, mentre suo fratello misura il pavimento sterrato della stalla senza una meta, rincorrendo la propria rabbia come un cane si rincorre la coda. I cavalli stipati nei box, come fiutandone la tensione, raspano la paglia con gli zoccoli e sbrodolano qualche nitrito nervoso. Marshall le gira le spalle larghe, frementi di muscoli increspati sotto pelle, e poi torna a voltarsi bruscamente per rivoltarle incontro un sorriso reso ripido dall’insofferenza.

"Pensi che quello stronzo ti porterà via da qui, kiddo? Pensi veramente che rimetterà mai a posto quella nave, e ve ne andrete veleggiando nello spazio come se tu fossi l’eroina di un romanzo da due soldi."

"Ti darebbe così fastidio, Marsh?"

Sharon si scolla dal muro con uno spasmo brutale di frustrazione, innescando il dondolio molle di un paio di selle appese al chiodo.

Marshall le sbatte in faccia uno sguardo disorientato.

"… Perché mi vorresti qui, per sempre, inchiodata alla sella di qualche stallone nell’arena di New Dallas o di Providence, a portata di mano, a- …"

"Cristosanto, Shaz, a te piace il rodeo!"

"Certo che mi piace! È il modo in cui Jacob Thornton e Tim Miller e tutti gli altri mi tengono gli occhi addosso, come se fossi anche io una bella puledra da ingravidare, a non piacermi. Il modo in cui tu mi tieni gli occhi addosso per controllare che quella stupida femmina di tua sorella non si faccia male cadendo! – lo trapassa con occhi spalancati, così simili ai suoi, in cui la rabbia sfuma lentamente nella contrizione ferita. – … Non guardi mai, mai Mitchell nello stesso modo."

"E pensi- … Tu pensi veramente che questo Beckett sia diverso. – Marshall affonda cinque dita fra i capelli sfatti e se li rivolta sul cranio nervosamente, raspandosi la testa come se il bruciore della cute potesse essere la chiave per decifrare lo sguardo sconosciuto di sua sorella. – Uno stronzo che ti riempie di lividi."

"Ti ho detto che sono caduta."

"Christ, caduta. Dovrei spezzargli le ossa."

"Don’t. You. Dare. Marshall Lee."

L’inflessione secca, categorica, nella voce di Sharon gli schiocca sulla pelle come un colpo di frusta e dilata gli occhi affilati di Marshall con un guizzo di smarrimento attonito. Incassa la testa fra le spalle, deglutisce; sfoga il terremoto collerico dei muscoli sputando a terra un bolo di saliva.

"Yeah, fuck you. Fuck him. Fuck everybodey."

Le strappa gli occhi di dosso e si volta per imboccare la porta.



10 Marzo 2516,
Safeport (Sunset Tower).
Interno notte.


Nei bagni dell’infermeria di Sunset Tower non trovi un quarto dell’igiene che ti aspetteresti in un ospedale, ma a Marshall della pulizia non importa granché mentre fronteggia la tazza del cesso a spalle curve, la schiena larga inclinata perché la fronte raggiunga il sostegno gelido delle piastrelle crepate alle spalle del gabinetto. Inspira ed espira lentamente, ingoiandosi l’aria maleodorante a boccate ingorde. Dalla tasca del camice spiegazzato e fradicio di sangue, infilato aperto e con poca cura su vestiti altrettanto malridotti, cava fuori i cinque grammi di bloom che ha chiesto all’ultimo paziente per avergli ricucito lo stomaco. La bustina di plastica sigillata è morbida fra le dita, l’erba essiccata che contiene sembra di qualità. Strizzando le palpebre, respira a fondo il tanfo di fogna per liberarsi il cervello dal ricordo allettante del fumo dolciastro che gli ha frustato le narici e aperto una voragine sotto lo sterno. In tasca, da qualche parte, ha tabacco sintetico e cartine per girarsi una sigaretta. Sarebbe questione di un attimo. Due tiri e poi giù dentro lo scarico. Due tiri soltanto. A occhi chiusi, galleggia nel buio custodito sul retro delle proprie palpebre coi muscoli tesi e frementi di desiderio inquieto. Scolla la fronte dalla parete solo per tornare a sbattercela; piano, poi più forte. Il dolore che gli rimbomba nella scatola cranica strappa alle narici lo sbuffo di una risata frustrata. Ha così voglia di farsi che gli sembra di essersi infilato l’ultimo ago in vena due giorni fa. Due ore fa. Due tiri. Solo due tiri. Un buco solo per ricordarsi dei vecchi tempi.

"…"

Gli scorre lungo la schiena un brivido di turbamento e sgrana gli occhi nella gola vuota e spalancata del cesso, ansimando fuori lo strano grumo di languore e disperazione che gli è germogliato in petto. Sputa nella tazza e poi ci lascia cadere la bustina di bloom. Un vortice d’acqua sporca trascina via la tentazione, e in bocca gli resta solo la voglia di piangere.

Invece ghigna masticando una bestemmia.