venerdì, novembre 28

II. Sergio Cortès

27 Novembre 2516,
Richleaf (Maracay).
Interno notte.


Sergio Cortès ha sempre fame. Di donne, di soldi, di violenza, di potere.
Si arrampicherebbe nella bocca dei Loa per cagargli sulla lingua.
È una montagna di muscoli gonfi e vene sporgenti come il bianco itterico dei suoi occhi, in cui i capillari s’intrecciano come fili di sangue. Pieno di blast fino alle orecchie, barcolla lungo le scale che connettono l’appartamento blindato di Las Rosas al garage sotterraneo, come una discesa agli Inferi amplificata dal rimbombare della musica attraverso i corridoi sventrati da una folla di trafficanti e puttane.
La mandria di uomini che lo accompagna è composta da quattro elementi che hanno addosso armi per un esercito; ridono e si insultano nel dialetto stretto di Maracay, gravitando intorno a Sergio come satelliti.
Le chiavi del suo nuovo thor sono agganciate al pollice tumefatto, non ancora decomposto, dell’uomo a cui l’ha preso. Le lancia in mano ad uno dei compari con un ghigno aperto sulla faccia scura come una ferita bianca e rossa.

"’Sto stronzo dentro al cemento non ci guida più."

Un’esplosione di risate, gli uomini si spintonano e si baciano sulle guance, quattro di loro si infilano nel thor e fanno stridere gli pneumatici sull’asfalto, schizzando fuori attraverso la notte.
Solo una volta che è rimasto solo il padrone di casa si rende conto di non esserlo veramente.

"Com’è che gli amici tuoi ridono sempre e tu sei sempre incazzato?" – la voce di Marshall è un cortocircuito d’allerta lungo i nervi cotti dalla blast di Sergio, che gli ha puntato addosso la canna del mitragliatore prima di riconoscerlo.

Il bianco alza le mani e gliene mostra il palmo vuoto, rivoltando un ghigno da bestia insofferente all’ombra degli zigomi aspri.

"… Easy, big boy."

Sergio si prende l’incoraggiamento pacifico di Lee con una smorfia sprezzante, facendogli cenno di avvicinarsi con il mento.

"Chi cazzo ti ha detto di venire qui, pezzo di frocio bianco."

I muscoli di Marshall si tendono e si rivoltano dentro la carne, scintillando sotto la patina lucida che il sudore gli ha incollato sulla pelle della gola e del muso affilato, ma alla domanda di Sergio risponde solo con un fremito degli angoli della bocca che basta a mandargli a fuoco il cervello.

"Jódete, maricon."

Il calcio del mitragliatore schiocca contro la faccia del bianco come una fucilata, sbattendogli le scapole larghe ridosso la grata piena di attrezzi (scalpelli, cacciaviti, seghetti che nel corso della vita hanno incontrato più carne che metallo) inchiodata sul muro. Cortès getta il mitragliatore da una parte per buttarglisi addosso, ma non si aspetta la scudisciata di spalle energica con cui Marshall gli schianta la fronte sul naso: lo sente scrocchiare e spezzarsi, innaffiandogli le labbra gonfie di sangue, ma il dolore affonda nella pozza di blast e adrenalina che ha al posto del cervello.
Sergio non barcolla, non arretra, afferra alla cieca il bavero del maglione di Lee e gliene strappa lo scollo sfilacciato. Si prende un calcio sul ginocchio e sente la gamba cedere, stavolta, ma strattona il bianco per il petto e gli si aggrappa addosso per vincere il tentennamento dell’articolazione. Lo investe come un’onda di marea nera, troppo grosso perché Marshall riesca a non farsi trascinare fino al cofano della jeep sul quale il negro lo sbatte inchiodandolo col proprio peso.

"Come sta mio nipote?" – si informa con apprensione ruvida, un gomito piantato contro lo stomaco dell’uomo di sua sorella, mentre lecca il sangue che gli gronda dal naso e lascia che qualche goccia rossa cada sul viso altrui.

Marshall accartoccia una smorfia riottosa, ancora troppo simile a un sorriso per i gusti di Sergio, strizzando un occhio e torcendo i muscoli sotto la zavorra di carne che gli impedisce di scollare la schiena larga dal metallo.

"… Always misses his mom."

Sergio annuisce. Persino lui ha nostalgia di Moloko, di tanto in tanto, e i bambini hanno bisogno della madre. Per questo riempie la sua donna di lividi e le ha scavato il suo nome nell’interno di una coscia a filo di coltello, ma non l’ammazzerebbe mai adesso che gli ha dato un figlio.
Hope crescerebbe meglio senza questo stronzo di suo padre, però, pensa mentre cava il coltello a serramanico da una tasca e tiene fermo il mento di Lee con una mano per infilargliene la lama in bocca.

"Cosa cazzo vuoi, puerco blanco?"

Marshall contrae gli zigomi in una smorfia di fastidio irrequieto, ma i suoi occhi brillano come la lama del coltello che cerca di evitare, con la lingua, mentre scrolla le spalle larghe contro la carrozzeria della jeep e sputa fuori un grugnito biascicato.

"I- uh, ’ame fo falk afouf ’ufineff."

Sergio Cortès ha sempre fame. Di donne, di soldi, di violenza, di potere.
Appunta il coltello contro l’angolo del ghigno contratto di Lee, specchiandolo con le labbra carnose e rosse di sangue mentre, chinato su di lui, gli fiotta in faccia un respiro impregnato di rum e metallo.

"Va bene, white trash, parliamo di affari."

Il coltello trancia la carne della guancia come un telo di stoffa, cavando alla gola di Marshall un ululato sofferente.





Don’t got a lot of time, don’t give a damn.
 Don’t tell me what to do, I am the man.

giovedì, novembre 27

I. Gabriel Cortès

27 Novembre 2516,
Richleaf (Maracay).
Interno giorno.


Gabriel Cortès è il più giovane e il più magro dei fratelli di Moloko. L’alcolismo gli ha asciugato i muscoli sulle ossa e ha calato una patina di allucinazione umida sugli occhi gentili, annegati nella distrazione degli artisti. Al sanatorio di Tartagal ci va per schizzare su fogli di carta volanti la miseria, la morte e il dolore: si immerge fra i malati e i feriti in cerca di ispirazione, ma anche di riscatto per le vite senza nome a cui restituisce pennellate di dignità nei suoi quadri.
Marshall lo trova sprofondato in una vecchia poltrona sgualcita, dall’imbottitura rotta, che qualcuno ha trascinato al capezzale di una bella ragazza sospesa fra la vita e la morte per la mitragliata sfuggita ad uno scontro fra bande. Danni collaterali.

"Me dicen el desaparecido
que cuando llega ya se ha ido

volando vengo, volando voy

deprisa deprisa a rumbo perdido …"

Gabriel la scruta con un occhio chiuso e uno aperto, la testa appena appena inclinata da una parte, come se stesse cucendole addosso uno studio prospettico, mentre si fa scivolare in bocca le note dolci di una canzone trasognata.

"Cuando me buscan nunca estoy
cuando me encuentran yo no soy
el que está enfrente porque ya
me fui corriendo más allá …"

Lee non lo interrompe subito. Cava un pacchetto di sigarette alle tasche del pantalone mimetico e ne raccoglie una con i denti, sfilando con le dita spesse una seconda Cheltenham da incastrare sopra l’orecchio sinistro di Gabriel che, come allo spezzarsi di un incantesimo, spegne la voce per torcere a malapena il collo e guardarlo di traverso.

"Si sveglia?" – Marshall biascica sul filtro della cicca mentre, schivando lo sguardo da sonnambulo del ragazzo, fa piovere il proprio sopra la sua spalla.

Sul taccuino spiegazzato che Gabriel tiene sulle gambe ci sono poche linee tremanti scavate a matita, e in quella manciata di linee ammucchiate quasi distrattamente il corpo della sconosciuta viene fuori dal foglio come un sogno sfaldato alla luce del mattino.
Il pittore si stringe nelle spalle.

"No sé, dicono che se non si sveglia stanotte non si sveglia più." – non è crudele, Gabriel Cortès, ma infinitamente assente.

Marshall si accende la sigaretta masticando una boccata di disagio, un’impazienza che solo i momenti d’inerzia irreale dei tossici e degli alcolizzati riescono a mettergli addosso: Gabriel sembra stremato, all’idea di muoversi, ma si tira in piedi per barcollare accanto al letto scalcinato della ragazza senza nome e sporgersi a guardarla dall’alto.

"Cerco tuo fratello."

Gabriel flette la schiena affusolata in una curva dolce, malgrado gli spigoli alati delle scapole, per posare un bacio sulle labbra della bela adormecida.

"… Sergio."

Il nome del fratello maggiore convince Cortès a voltarsi, appoggiando le natiche al comodino di metallo spoglio su cui qualcuno ha posato un fiore di carta di giornale. Incrocia le braccia e spiegazza un sorriso gentile, distaccato.

"Nessuno cerca Sergio, tutti sperano solo che non sia lui a trovarli."

Marshall mastica il filtro della cicca con un’alzata di spalle, appendendo le dita spesse di una mano al collo slabbrato di un maglione blu dalla trama sfilacciata. Rigira un ghigno melenso da canaglia sotto gli zigomi aguzzi.

"C'mon, Gabe …"

Gabriel dondola sui talloni con aria indecisa, uno strano sorriso eccitato sulla bocca e occhi più vacui che mai.

"Andiamoci a bere una cosa, prima. Serginho mi potrebbe anche ammazzare."





Me dicen el desaparecido

fantasma que nunca está,

me dicen el desagradecido

pero esa no es la verdad

Yo llevo en el cuerpo un dolor

que no me deja respirar

llevo en el cuerpo una condena

que siempre me echa a caminar

mercoledì, novembre 26

Un fratello maggiore non ha sempre ragione, solo qualche anno in più.

26 Novembre 2516,
Safeport / Bullfinch.
Interno giorno.


"… Ti ho spaccato la faccia perché hai dato un bacio alla mia ragazza, Chino, vuoi sapere che farei al tuo posto? Gli aprirei il petto con una fucilata allo stronzo che vuole fotterti Moloko."

Mitchell scalpita e sfiata come uno stallone nervoso, Marshall sente le assi di legno del salotto di casa scricchiolare mentre il maggiore dei Lee cammina in cerchio come un animale in gabbia (lo sa perché è la stessa cosa che fa lui quando vorrebbe prendere a pugni qualcuno che non c'è).

"Jeez, statti calmo, nessuno qua si fotte nessuno. A parte in senso letterale." – l’ironia del gioco di parole gli spreme un fiotto d’ilarità sorda attraverso il naso, stirando i vertici della bocca in una mezzaluna aspra.

"How the fuck d’you know-- he fuck’d her, how d’ya fuckin’ know he’s not going to steal her.“

"I just-- fuck you. I know shit ok? Come quando sai che hai vinto un rodeo e l’ultimo gaucho non è ancora salito sul toro."

"Cristosantissimo, stai paragonando la tua donna a un toro."

Marshall strofina un ghigno ruvido sul dorso delle nocche consumate.

"Per Dio, Marsh, tu sei tutto storto."

"Porcaputtana, Mitch. – la voce di Nina, ovattata dalla distanza e dal gracchiare della linea disturbata, si leva da qualche parte alle spalle del fratello – … La vuoi smettere di tirare Nostro Signore in mezzo ai fatti vostri?"

Il ghigno di Marshall degenera in una risata che fa esplodere il disturbo metallico della frequenza cortex come lo sfrigolio impazzito dell’olio in una padella, costringendolo ad allontanare il pad dalla bocca.

"Shit, coglione, sei ancora lì?"

"Dipende se hai finito di essere geloso della mia femmina."

"Non sono geloso, stronzo."

"Jeez, come no. – Marshall strofina una mano fra i capelli sfatti; – Sei marcio."

"Fuck off, lil’one, sei tu che mi vieni a confessare tutti i cazzi tuoi come se fossi un cazzo di pastore."

"’Course I do, you're my big brother."

Mitchell intuisce il sorriso da lupo di suo fratello a parsec di distanza, trascinando una mano contro il viso per trattenere malamente l’ombra di una risata arresa.

"Vi devo dire anche un’altra cosa. – grugnisce il minore dei Lee, prima che lo stridio metallico di una voce fuori campo lo richiami con urgenza (attraverso il cortex si capisce poco: radiazioni, scavengers, baracche); – Fuck-- ti richiamo."

Marshall chiude la comunicazione.

Mitchell lascia rotolare il pad sopra il tavolo e trascina le mani nei capelli, stropicciando una smorfia d’incomprensione cruda. Solleva lo sguardo su Nina, appoggiata contro lo stipite della porta con le mani nelle tasche della lunga gonna da cowgirl e una Black Mamba eccezionalmente accesa fra le labbra.

"By the way … – biascica svogliatamente sul filtro, inarcando appena le sopracciglia bionde; – It was her who fuck’d him."







Se ti dicono di alzarti tu siedi 
e, quando siedono, tu alzati in piedi.

martedì, novembre 18

Only skin.

18 Novembre 2516,
Richleaf (Maracay).
Interno giorno.


Maracay è una gemma di cemento e metallo incastonata nel cuore della foresta tropicale. Una regina incoronata dalle guerre intestine che pompano sempre nuovo sangue lungo le sue strade, nuova devozione nelle vene dei suoi sudditi-soldato.
Marshall ha rifiutato già da tempo l’idea di Dio, ma mentre attraversa il barrio Cienfuegos all’ombra dei giganteschi alberi di ebano che, più alti dei palazzi, svettano come vele brune all’orizzonte, gli viene facile immaginarli come il trono dei Loa che ha visto disegnati sui muri del locale in cui Moloko lo ha costretto a immergersi nella marea nauseante, eccitata, dei corpi sconvolti dalla musica.
Si sente addosso il marchio segreto di quel rito, nascosto sotto il sudore che gli ha reso lucida la carne, e gli occhi dei bambini e delle donne affacciati sui portoni e alle finestre hanno lo stesso sguardo curioso e indifferente del Padre-serpente del voudùn.

"It’s been a while, Lee."

Sulle labbra da teschio di Cristobal trova un fuoco mai spento, ma nei suoi occhi verdi una serenità limpida e più profonda delle radici dell’ebano: nella sua casa, nel suo mondo, Oxossi e i suoi tatuaggi da scheletro trovano il loro posto come il tassello mancante di un mosaico.
Marshall solleva una delle due tazze di terracotta posate sul tavolo di legno scuro, arricciando il naso adunco per ingoiarsi l’odore fresco e pungente delle erbe sciolte nell’acqua bollente.

"La prigione della contea di Buffalo mi ha tenuto occupato."

Cristobal solleva le arcate d’osso che coronano le orbite vuote dipinte sulle sue palpebre: un po’ sorpreso, un po’ preoccupato, gli cerca addosso i segni della detenzione. Soppesa il silenzio per una manciata di secondi prima di sbuffare una risata, incalzandolo con due dita.

"Caralho, non c’è mica il veleno dentro."

"Fuck you."

Marshall non ne è tanto sicuro, ma dopo aver rivoltato un ghigno sfrontato all’ombra degli zigomi spigolosi non gli resta che bere l’intruglio dolceamaro e dissetante, preparato dalla stessa donna corpulenta e senza età che l’ha accolto sulla porta come se lo stesse aspettando.

"Come vanno le cose qui?"

Cristobal beve e sprofonda lo sguardo nel contenuto della propria tazza, come se potesse leggerci dentro un quadro strategico della guerriglia che non smette mai di straziare la sua terra.

"La sete di sangue che alimentava la faida si sta estinguendo … Come sempre, nessuno ha vinto e tutti abbiamo perso qualcosa."

Lee strattona contro le guance ripide un ghigno melenso, senza riuscire a fermare lo sguardo che scivola contro i lineamenti tatuati di Oxossi come l’acqua lungo le rapide di un fiume.

"Jeez, Bones, così malinconico …"

Il teschio stiracchia un sorriso sardonico, singhiozzando un sospiro che gli fa sussultare sul petto nudo la testa d’uccello appesa intorno al collo. Marshall si guarda intorno con l’inquietudine annodata nei muscoli, in bilico sul confine fra sollievo e disagio.

"Volevo portarti Hope, ma in questa città del cazzo è peggio che a Serenity Valley."

"Ay, callate. – la severità di Cristobal non è collerica; lo ammonisce come si fa con i bambini e lo costringe a tornare a guardarlo, prima di stringersi nelle spalle con una svirgolata pigra del sorriso. – Allora perché sei venuto?"

Marshall mastica un ghigno crudo, cercandosi le sigarette in una tasca per mascherare la torsione frustrata dei fasci di carne attorcigliati sulle ossa come una nidiata di serpenti.

"’Cause I’m not able to see you anymore."

L’insofferenza mortificata e scossa dalla nostalgia che gli arroventa la voce si scontra con occhi verdi troppo brillanti, intrisi di una comprensione che Lee non si aspettava e lo colpisce, costringendolo a girare il viso di scatto, come lo schiocco di un nerbo di cuoio.
Rovescia la tazza di té ancora mezza piena nella torsione brutale di carne e nervi con cui si tira in piedi.

"… Fuck you and fuck y’all bloody fortune-tellers."

Rovescerebbe anche il tavolo, se non avesse il peso stabile del legno massiccio ad ancorarlo in terra, per impedire ad Oxossi di scattare come un ragno d’acqua sul pelo del lago, aggirando l’ostacolo per scavalcare il divario d’altezza a mani tese verso il suo volto.
Il desiderio di affondargli le nocche in faccia gli svapora dalle ossa nel momento in cui si sente afferrare delicatamente la testa, chinando il mento per lasciarsi addomesticare dal contatto asciutto con cui la bocca da teschio gli tampona le labbra.
Poi, senza tirarsi indietro, così vicina che Lee non è sicuro che quella che sente sia davvero la voce di Cristobal, gli restituisce un segreto.

"You can’t be angry forever."





 And when the fire moves away,
fire moves away, son.
Why would you say
I was the last one?

venerdì, novembre 14

Once you’re a parent, you’re the ghost of your children’s future.

15 Novembre 2516,
Bullfinch (Amarillo).


La prima cosa che fa, una volta libero, è tornare su Bullfinch.
E quando vede suo figlio, volato dai tre ai sei anni senza di lui, corrergli incontro con il tramonto esploso dietro il profilo delle montagne a galleggiargli sulla testa bionda come un’aureola di fuoco, Marshall Lee fa una cosa che non faceva da anni.
Si preme una mano in faccia e piange.

mercoledì, novembre 5

I can feel it coming in the air tonight.

4 Novembre 2516,
Greenfield (Buffalo County Prison).
Interno notte.


Ivan Volkov è un enorme toro nero che respira nel buio, sfiatando come un filo di vapore il fumo di una sigaretta accesa.
Semi sdraiato sul letto, coi gomiti affondati dentro il materasso sfondato, Marshall fissa l’oscurità profonda e omogenea che ha colonizzato il fondo della sua cella. La metà superiore della divisa da detenuto è un grumo di pieghe arancioni incastrato sotto l’ascella sinistra e il sudore colato lungo il solco dei muscoli asciutti, scavati in punta di coltello come il profilo roccioso delle St Louis Mountains, si raffredda fastidiosamente sulla pelle nuda.
Il suo respiro pesante e quello del Korolevian si mescolano nel silenzio che si dilata e si comprime come l’eco dei battiti di un cuore.

"So, you proud of me?"

La voce di Marshall è un fiotto di raucedine tracotante, i suoi occhi due calderoni d’acqua che ribolle sopra un fuoco di strafottenza.
Gli anfibi di Volkov scandiscono la vicinanza come una marcia militare mentre l’uomo nero, come una creatura d’incubo partorita dal buio, si lascia lambire dalla penombra e stringe le labbra sulla cicca, ravvivando il bagliore della brace riflessa nello specchio lucido dei suoi occhi.
Le cicatrici che gli deturpano il torace nudo e scuro, gonfio di muscoli come le cosce di un cavallo da tiro, Lee non è sicuro di ricordarle tutte, ma trova senza difficoltà la propria firma lungo il suo stomaco piatto.

"Dovrei? Ti sei fatto arrestare."

La voce bassa e profonda del Korolevian scuote la cella dalle fondamenta e annoda un groviglio di frustrazione nelle viscere di Marshall, che rivolta il labbro superiore contro ai denti e, come fa sempre quando vorrebbe piangere, sbatte in faccia all’uomo nero un ghigno ripido.

"E tu dov’è che te ne sei stato nascosto per tutto questo tempo?"

"… Nella tua testa."

"Vaffanculo."

Lee si tira a sedere con uno spasmo di muscoli violento come un temporale, che fa tremare il letto e gli affonda nella coscia destra una fitta acuta, bollente, come gli avessero ficcato un tizzone di brace dentro la carne.
Allunga le dita per tastare attraverso il tessuto le garze umide di sangue e la sutura che sigillano il buco lasciato dal proiettile.

"Sei un pezzo di merda, Volkov, te ne sei andato e ci hai mollato con il culo per terra … Che cazzo vuoi adesso."

Volkov fuma e non gli parla, lo guarda dall’alto per minuti interminabili, forse per ore.
Il tempo si dilata come una bolla, finché la voce del negro torna a colmare la cella col distacco ingannevole di una polla di lava che che gorgoglia nel sottosuolo.

"Sei tu che volevi vedermi."

Marshall cede in avanti con l’arco delle spalle spaziose, trascinandosi le mani in faccia per seppellire una risata cruda e desolata contro i palmi larghi e callosi.

"Vai fuori dai coglioni." – non ha bisogno di vedere Volkov per sapere che è ancora lì. Immobile, arrogante come la statua di un minatore nel centro di Krasnaja ploščad’.

"Vuoi levarti dal cazzo, Cristosantissimo? – la seconda esplosione di fiato schiocca come una fucilata, gonfiata dall’esasperazione che gli morde i muscoli e fa bruciare la traccia ancora fresca della pallottola infilata nella gamba. – … Lasciami dormire miseria puttana."

Non ha quasi il tempo d’iniettare le proprie fra i capelli umidi, che cinque dita nere e gelide come il metallo lo prendono per la gola, costringendolo a levare gli occhi sulla montagna di carne fremente, tirata e scura come il cuoio, che incombe su di lui per rovesciargli in faccia una leccata di fumo acre.

"Non sono io che non ti faccio dormire, Lee."

Il Korolevian preme un ginocchio sul letto e lascia andare il collo teso di Marshall, paralizzato nell’incomprensione. Gli schiocca la mano aperta sulla spalla nuda, sbirciando la brace della propria sigaretta con una smorfia vagamente comprensiva.
Gli dice:

"Se vi ho lasciato è perché non valevate niente."

Lee spreme alle narici un sospiro arreso, strofinando le nocche sbucciate sulle labbra.

"I cani che non sono buoni non si abbandonano, negro, gli si spara in testa. Perché se sopravvivono diventano peggio dei lupi."

Volkov chiude il mozzicone di sigaretta nella mano enorme. Ce lo fa sparire dentro come in un gioco di prestigio: inghiottito dal buio come la sua mole che arretra, si fonde nell’ombra, lasciandosi dietro una traccia di voce rovente.

"… Why don’t you stop blaming yourself, then?"

L’alba che filtra attraverso le sbarre trova le lenzuola sfatte sul pavimento e le pareti sporche di sangue dove Marshall ha preso a pugni le ombre per estrarne, come un proiettile, il ricordo doloroso dell’uomo nero.





 But I know the reason why you keep your silence up,
No you don't fool me.
The hurt doesn't show,
But the pain still grows,
It's no stranger to you and me …