mercoledì, novembre 5

I can feel it coming in the air tonight.

4 Novembre 2516,
Greenfield (Buffalo County Prison).
Interno notte.


Ivan Volkov è un enorme toro nero che respira nel buio, sfiatando come un filo di vapore il fumo di una sigaretta accesa.
Semi sdraiato sul letto, coi gomiti affondati dentro il materasso sfondato, Marshall fissa l’oscurità profonda e omogenea che ha colonizzato il fondo della sua cella. La metà superiore della divisa da detenuto è un grumo di pieghe arancioni incastrato sotto l’ascella sinistra e il sudore colato lungo il solco dei muscoli asciutti, scavati in punta di coltello come il profilo roccioso delle St Louis Mountains, si raffredda fastidiosamente sulla pelle nuda.
Il suo respiro pesante e quello del Korolevian si mescolano nel silenzio che si dilata e si comprime come l’eco dei battiti di un cuore.

"So, you proud of me?"

La voce di Marshall è un fiotto di raucedine tracotante, i suoi occhi due calderoni d’acqua che ribolle sopra un fuoco di strafottenza.
Gli anfibi di Volkov scandiscono la vicinanza come una marcia militare mentre l’uomo nero, come una creatura d’incubo partorita dal buio, si lascia lambire dalla penombra e stringe le labbra sulla cicca, ravvivando il bagliore della brace riflessa nello specchio lucido dei suoi occhi.
Le cicatrici che gli deturpano il torace nudo e scuro, gonfio di muscoli come le cosce di un cavallo da tiro, Lee non è sicuro di ricordarle tutte, ma trova senza difficoltà la propria firma lungo il suo stomaco piatto.

"Dovrei? Ti sei fatto arrestare."

La voce bassa e profonda del Korolevian scuote la cella dalle fondamenta e annoda un groviglio di frustrazione nelle viscere di Marshall, che rivolta il labbro superiore contro ai denti e, come fa sempre quando vorrebbe piangere, sbatte in faccia all’uomo nero un ghigno ripido.

"E tu dov’è che te ne sei stato nascosto per tutto questo tempo?"

"… Nella tua testa."

"Vaffanculo."

Lee si tira a sedere con uno spasmo di muscoli violento come un temporale, che fa tremare il letto e gli affonda nella coscia destra una fitta acuta, bollente, come gli avessero ficcato un tizzone di brace dentro la carne.
Allunga le dita per tastare attraverso il tessuto le garze umide di sangue e la sutura che sigillano il buco lasciato dal proiettile.

"Sei un pezzo di merda, Volkov, te ne sei andato e ci hai mollato con il culo per terra … Che cazzo vuoi adesso."

Volkov fuma e non gli parla, lo guarda dall’alto per minuti interminabili, forse per ore.
Il tempo si dilata come una bolla, finché la voce del negro torna a colmare la cella col distacco ingannevole di una polla di lava che che gorgoglia nel sottosuolo.

"Sei tu che volevi vedermi."

Marshall cede in avanti con l’arco delle spalle spaziose, trascinandosi le mani in faccia per seppellire una risata cruda e desolata contro i palmi larghi e callosi.

"Vai fuori dai coglioni." – non ha bisogno di vedere Volkov per sapere che è ancora lì. Immobile, arrogante come la statua di un minatore nel centro di Krasnaja ploščad’.

"Vuoi levarti dal cazzo, Cristosantissimo? – la seconda esplosione di fiato schiocca come una fucilata, gonfiata dall’esasperazione che gli morde i muscoli e fa bruciare la traccia ancora fresca della pallottola infilata nella gamba. – … Lasciami dormire miseria puttana."

Non ha quasi il tempo d’iniettare le proprie fra i capelli umidi, che cinque dita nere e gelide come il metallo lo prendono per la gola, costringendolo a levare gli occhi sulla montagna di carne fremente, tirata e scura come il cuoio, che incombe su di lui per rovesciargli in faccia una leccata di fumo acre.

"Non sono io che non ti faccio dormire, Lee."

Il Korolevian preme un ginocchio sul letto e lascia andare il collo teso di Marshall, paralizzato nell’incomprensione. Gli schiocca la mano aperta sulla spalla nuda, sbirciando la brace della propria sigaretta con una smorfia vagamente comprensiva.
Gli dice:

"Se vi ho lasciato è perché non valevate niente."

Lee spreme alle narici un sospiro arreso, strofinando le nocche sbucciate sulle labbra.

"I cani che non sono buoni non si abbandonano, negro, gli si spara in testa. Perché se sopravvivono diventano peggio dei lupi."

Volkov chiude il mozzicone di sigaretta nella mano enorme. Ce lo fa sparire dentro come in un gioco di prestigio: inghiottito dal buio come la sua mole che arretra, si fonde nell’ombra, lasciandosi dietro una traccia di voce rovente.

"… Why don’t you stop blaming yourself, then?"

L’alba che filtra attraverso le sbarre trova le lenzuola sfatte sul pavimento e le pareti sporche di sangue dove Marshall ha preso a pugni le ombre per estrarne, come un proiettile, il ricordo doloroso dell’uomo nero.





 But I know the reason why you keep your silence up,
No you don't fool me.
The hurt doesn't show,
But the pain still grows,
It's no stranger to you and me …