lunedì, aprile 28

Rearview mirror.

28 Aprile 2516,
Safeport (Sunset Tower).
Esterno notte.


Uno specchio deformato che ha gli occhi grigi di Nathan Snow e il suo ghigno ottuso da stronzo spaccateste, da carogna persa nel gorgo dell’inutilità. Marshall ci si guarda attraverso e sente lo stomaco rivoltarsi come un calzino. Spalma una mano contro il muso per frenare la nausea e trova lo spessore ruvido dei punti cuciti a tenere insieme i lembi aperti del sopracciglio. La carne ferita brucia al passaggio dei polpastrelli callosi e fa schioccare di sollievo i muscoli intrecciati lungo la schiena. Da fare a piedi dall’infermeria di Sunset Tower alla nave è lunga, le suole degli scarponi da lavoro strisciano e incespicano lungo il crinale frastagliato del canyon che domina il panorama di lamiera e fango dei quattro distretti che confluiscono e s’intrecciano lungo i tralicci di ferro dello spazioporto, proiettato verso il cielo di un pianeta consumato da se stesso. Il ghigno da stronzo suicida di Snow che gli grida in faccia "Non pensare, picchia". La violenza non è una droga più letale delle altre; solo più veloce ad ammazzarti. Dopotutto ogni maniera è buona per annichilirsi il cervello, e tutte le mattine Marshall deve ripetersi che la lucidità non è una punizione. L’ultima volta che ha avuto per le mani una bustina di switch l’ha rubata alle tasche del padre di Moloko e se l’è girata fra le dita per ore, l'ha annusata attraverso la plastica come un disperato e adesso si chiede se per impedirsi di aprirla gli siano serviti più coraggio o più vigliaccheria. Masticandosi le dita, quando non le passa fra i capelli sfatti nel tentativo vano di placare le contrazioni dolorose della testa che pulsa come un secondo cuore, pensa a quanto vorrebbe affondare le nocche nella faccia di Snow fino a renderla un pantano di sangue. Strappargli il ghigno dalla faccia. Dimenticarsi cosa si prova a strisciare in cerchio come un cane che si morde la coda e vivere giorni tutti uguali, scacciando ogni mano tesa col terrore confuso di essere trascinati alla luce del sole, costretti a guardare in faccia le macerie della propria vita. Marshall si ferma, in bilico fra i crostoni di roccia, e si piega sulle ginocchia a vomitare. Asciuga le labbra con il dorso di una mano larga e rivolta il braccio sinistro per contare le tacche nere tatuate sulla pelle corrosa da buchi rimarginati. Si tira in piedi, asciuga la fronte con l’interno del polso spesso e sputa a terra un grumo di saliva. Per tenere in piedi una torre di macerie impilate fino al cielo ci vogliono equilibrio e molta ostinazione.

Well, we do the best with the souls we’ve been given.

lunedì, aprile 21

You can scratch all over but that won’t stop you itching.

21 Aprile 2516,
Polaris (Koroleva).
Interno notte.


Il Wyoming Archangel’sk lascia l’orbita in orario, spaccando la crosta invisibile del cielo di Koroleva con un fremito di lamiere improvvisamente libere da tonnellate di pressione atmosferica. Marshall ha salutato Elian allo spazioporto e si è fermato a comprare un paio di pacchetti di natsional’nyy prima di lasciare il pianeta. Se ne rigira una fra le dita robuste, seduto sul bordo della branda, nella cabina spoglia e immersa nel cigolio sommesso che le vibrazioni del motore nucleare iniettano fra le giunture metalliche dell’astronave. Si è potuto sfilare di dosso gli strati di lana infeltrita, ora che il gelo rigido di Stalingrad non gli frusta più le ossa, ma ha i polpastrelli spaccati dal freddo e nel naso un’umidità fastidiosa.

"Secondo me ti ha raccontato solo stronzate su quell’accendino."

La voce prende corpo nell’angolo della cabina dov’è imbullonato lo scrittoio. Sollevando il mento con uno scatto allertato, Marshall trova i quadri verdi e bianchi della camicia larga e sdrucita che veste le spalle spesse di un ragazzo sulla ventina, addossato di natiche al bordo del tavolino di metallo e impegnato a ricacciare indietro con le dita la torma ramata di riccioli accatastati sulla testa.

"… Non è una specie di costante, con le donne della tua vita?"

Dorian Beckett si appende le sopracciglia in fronte con un singhiozzo interrogativo, indolente e malinconico dei lineamenti dolciastri, ancora non del tutto lavati dagli strascichi dell’adolescenza. Seduto scompostamente, con un piede scalzo piantato a terra e l’altro sul bordo dell'unica sedia in dotazione alla cabina, riflette l’allerta limpida dello sguardo di Marshall nel verde degli occhi umidi e annacquati dall’alcolismo.

"Te lo ricordi quello scricciolo che ti ha venduto a Joe Black, no? … Zoe Morrigan. – il sorriso che gli scivola sotto i baffetti fulvi è intriso di un’ironia mesta, – Vuoi dirmi che non le spezzeresti qualche osso, se non fosse sparita dalla faccia del ’Verse?"

Marshall scrolla le spalle con uno spasmo nervoso dei muscoli, rivoltando il labbro superiore contro ai denti e sfiatando dal naso un grumo di sprezzo denso.

"Non ti risponderei neanche se esistessi davvero." – gli fa notare, svogliatamente, arricciando gli angoli della bocca in un sorriso ripido e addentando l’estremità morbida della Nazionale senza filtro.

"È proprio perché esisto solo nella tua testa che non ho bisogno di una risposta."

La logica quieta di Dorian gli gonfia la schiena larga d’insofferenza, annodando il groviglio di muscoli elettrici e iniettando un’urgenza stizzita nelle dita spesse che rivoltano la scatola dei fiammiferi, spezzandone un paio prima di riuscire ad accendere la sigaretta. Nemmeno il sollievo avvelenato del primo sorso di catrame riesce a spegnere il formicolio dilagato sotto la pelle come una laboriosa colonia d’insetti.

"… Chissà la madre di tuo figlio che cosa non ti racconta. Magari se la fa con quel negro enorme. Non ti sembra un po’ uno di quei tori del Red Hooves? Deve avercelo molto più grosso del tuo."

Beckett si tira in piedi senza fretta, stiracchiandosi, ed allunga una mano grande e callosa, sporca di olio motore, per raccogliere la matassa di corda appesa allo schienale della sedia. La sbroglia senza fretta, con metodo, piegando il mento ispido di peluria acerba incontro alle clavicole scoperte dal colletto spiegazzato. Marshall lo guarda annodare un’estremità della cima, chiedendosi confusamente da dove venga mentre recupera la cicca con due dita, raspando l’angolo interno degli occhi con quelle della mano libera.

"In quel caso sarebbero solamente cazzi loro."

"Hhnnon è così che hai perso Sue, Lee? Dandole troppa corda e spedendola dritta nelle braccia di un altro?"

"Sue si era trovata l’uomo migliore che potesse trovarsi, pace all’anima di quel povero diavolo."

Dorian annuisce, rovesciando gli occhi in alto per valutare la distanza della trave di legno che attraversa il soffitto della cabina, più simile all’architrave portante di una stalla o di un vecchio fienile, fusa nel metallo alla maniera irreale di certi sogni saldati insieme. Marshall scatta in piedi, coi muscoli vibranti come cavi tesi, quando lo vede oscillare la corda e poi lanciarla per farne passare l’estremità annodata oltre il sostegno solido della putrella. Deglutisce a fatica un bolo di fumo e saliva mentre Beckett finisce di preparare il cappio, soppesandolo dal basso con compiacimento assorto.

"… Così, in realtà l’unica donna che hai sempre cercato di tenere al guinzaglio è stata Sharon."

"Fuck you. – Marshall gli ringhia addosso, a bruciapelo, prima che abbia pronunciato l’ultima lettera del nome di sua sorella; – Dovresti sciacquarti quella bocca di merda prima di nominarla."

La tentazione d’ingoiarsi la distanza esigua fra il letto e l’angolo della cabina gli rivolta i fasci di carne sotto la pelle e i vestiti, ma le dita di Dorian abbandonano la ruvidezza della corda per arrampicarsi lungo la fila di bottoni della propria camicia. Li slaccia uno per uno, svelando il torace asciutto e l’intreccio generoso dei muscoli, inchiodando le spalle di Marshall al muro con l’alone violaceo e arrossato dei lividi freschi che gli mangiano la pelle a chiazze.

"Hai ragione. Mi dispiace."

Dorian stropiccia una smorfia triste, di rassegnazione malinconica, mentre lascia cadere a terra la camicia e contempla, indeciso, l’orlo dei jeans leggermente cascanti sui fianchi stretti. Se li tiene addosso, afferrando la spalliera della sedia per trascinarla sotto il cappio ed issarcisi con un guizzo svelto, quasi ansioso, delle gambe lunghe. Marshall fa leva sulle proprie appena prima che cedano, scollandosi dalla parete con uno spasmo dei gomiti per imboccare la porta automatica ed affacciarsi precipitosamente sul corridoio vuoto del Wyoming, proprio mentre il tonfo della corda tesa gli stura le orecchie dall’interno, spremendo al cuore una picchiata violenta ed annodandogli le viscere in un grumo pulsante di nausea. La sigaretta è rotolata in terra nella foga di sfilarsi alla prigione della cabina infestata, e nel tubetto del nootropam gli sono rimaste quattro pillole.

Le prende tutte.

giovedì, aprile 17

Welcome home.

Giugno 2511,
Bullfinch (Timisoara).
Esterno giorno.


A piedi dal campo d’atterraggio su cui li hanno sbattuti è lunga, ma l’impressione di non sentirsi più i muscoli è familiare, sedimentata come il fischio del mortaio nelle orecchie e il rimbombo di ogni detonazione in fondo al cranio. Timisoara sembra una città fantasma, isolati interi abbandonati e quartieri sfollati per paura delle bombe. La nebbia si è mangiata le pareti delle case, ha reso il legno marcio e la terra umida. Bullfinch accoglie i suoi sopravvissuti nella cornice spenta di un’estate spettrale, e la periferia della capitale non sembra più affollata della vetta delle St. Louis Mountains.

A venire fuori dalla porta del vecchio saloon è una sagoma sola, smagrita e fragile come i fili secchi dei capelli biondi, sporchi e annodati che ha appesi lungo le spalle. Si muove come se lo sterrato le dovesse cadere a pezzi sotto ai piedi, barcollando con le braccia strette al petto per tenerci inchiodato un fagotto di stracci laceri quanto la sua faccia rigata di polvere. Nina è sciupata dall’insonnia e dalle privazioni, ha la pelle sporca incollata alle ossa come una guaina pallida. La sensazione che il vuoto al suo fianco sia il risultato di una mutilazione non colpisce Marshall tanto in fretta quanto suo fratello. Nina è costretta a ingoiarsene lo sguardo disorientato come un macigno. Vacilla ed accomoda fra le braccia le pieghe irrequiete del groviglio di stracci.

"Lei non ce l’ha fatta."

Le gambe di Mitchell si spezzano come due rami secchi. Marshall non riesce ad afferrarlo prima che le ginocchia gli si schiantino nel fango e boccheggia, travolto dall'impotenza, raspando la desolazione opaca degli occhi di Nina che oscillano disperatamente fra i suoi e l’orrore umido, senza appigli, che ha reso lo sguardo del maggiore dei Lee profondo come una voragine.

"Fuck. – Marshall spazza i capelli sfatti con una manata urgente, arpionandoli per conficcarsi manciate di spilli dentro la cute, – … Che aspetti? Dagli il cazzo di bambino."

Nina si scuote, annuisce, si accoscia sui calcagni per ficcare il fagotto tra le braccia di Mitchell. Il peso insignificante di suo figlio gli restituisce il respiro, sfilando fuori piano la disperazione insinuata tra pelle e ossa ad impedirgli di avvertire il proprio corpo. Ricorda, poco a poco, dell’umidità affondata dolorosamente nel buco delle ferite rimarginate di fresco, dell’aderenza molle della fanghiglia sotto le ginocchia, del bruciore delle lacrime lungo le guance fattesi spigolose in trincea. Ricorda tutti i piccoli fastidi di un corpo malridotto e vivo. Si ricorda che ha fame, realizza che anche il bambino avrà fame, e quando finalmente, quasi senza pensarci, abbassa lo sguardo sui suoi lineamenti minuscoli, si accorge che il bambino è una femmina. E che è fregato. Deve rimettere insieme i pezzi in fretta e meglio che può, perché sua moglie se n’è andata scaricandogli il futuro tra le braccia.



Aprile 2516,
Bullfinch (Amarillo).
Esterno giorno.


La bambina bionda siede a gambe incrociate sul terriccio bruciato dagli aghi di pino e fissa la lapide bianca, incrostata di muschio, su cui l’uomo imponente alle sue spalle proietta di taglio la propria ombra immensa. La bambina ha occhi seri e limpidi, mani piccole a cui gli strascichi della guerra hanno teso la pelle sulle nocche spigolose. Deposita tre fiori dalla testa gialla davanti alla punta di cuoio dei propri scarponi.

"Anche se quest’anno la primavera è venuta nuda e un po’ malata, il Re Cervo me li ha fatti trovare per te. Vedi, questa sono io, questo è Hope. E questo è Bobby François."

L’uomo sfiata un grumo d’aria attraverso il naso, strofinandosi la nuca bionda con una mano larga e ancora indurita dai geloni invernali.

"Kiddo, Bobby François- …"

"… Riposa nella terra, lo so. Ma può avere un fiore anche lui?"

La bambina torce il collo sottile come lo stelo dei ranuncoli allineati in terra, rovesciando la testa per sbirciare l’uomo dal basso, di sottecchi, con un occhio semichiuso incontro al sole.

"Certo. Certo che può."

Justice Lee abbozza un sorriso furbo, soddisfatto, e si allunga di getto per schioccare un bacio sulla pietra fredda della lapide. Poi si appende alla mano di Mitchell per tornare in piedi, lasciandosi raccogliere fra le sue braccia come un fiore colto nel prato.

"Sono pesante?"

"Come un bue grasso."

"… Allora portami a casa in braccio."

Il sole bacia la terra ferita di Bullfinch che guarisce lentamente, seppellendo le cicatrici delle bombe fra le radici degli alberi.



Here, beneath my lungs, I feel your thumbs press into my skin again.

martedì, aprile 1

You won’t fool the children of the revolution.

1 Aprile 2516,
Bullfinch (Amarillo).
Interno giorno.


"Non ci posso ancora credere che hai fatto questa cosa senza di noi."

Justice se ne sta con le spalle premute sul bordo del tavolo in salotto, le braccia intrecciate davanti al petto e due occhi da mastino sguinzagliati verso l’alto. Marshall non riesce quasi a credere che sia la stessa bambina che ha baciato in testa l’ultima volta, prima di lasciare Bullfinch e scoprire che nove mesi passano in un battito di ciglia. Arriccia sul muso ispido un ghigno crudo e disorientato, trascinando dallo stomaco alle labbra la sensazione di avere perso irrimediabilmente qualcosa.

"Mi dispiace, Jay-Lee, non potevo correre qui ogni volta che avrei voluto, ah? – gli occhi di Marshall scivolano di là dal tavolo, in cerca di una via di fuga, ma trovano solo il sorriso sfottente di suo fratello Mitchell a fare capolino dall’incrocio di braccia spalmate sul legno. – … Sono stato occupato."

Il minuscolo Generale Lee scrolla la testa bionda (quand’è che i capelli le sono arrivati alle spalle?) e spinge in faccia allo zio il singhiozzo scettico di un sopracciglio.

"I think you’ve been just dee-iu-em-bee."

Marshall tira indietro la nuca di scatto, come se una mano invisibile lo avesse preso e schiaffeggiato a tradimento, e spinge un grumo d’aria secco su per le narici contratte nella smorfia d’incomprensione feroce che gli ha arpionato la faccia.

"Me, dumb? Fuck. – gli occhi slavati spazzano il salotto, falciando la ghigna serafica di Mitchell e i denti di Nina, puntellata col gomito sulla spalla del maggiore dei Lee, che schiacciano il labbro inferiore fino a sbiancarlo. – … Why the hell is she talkin’ like this, anyway."

È sua sorella a venirgli in aiuto, impietosita dal raspare smarrito delle cinque dita spesse con cui lo guarda rivoltarsi sulla testa i capelli bruni e disordinati.

"Spelling. Sta imparando a scrivere. – rivela, raddrizzata la schiena per stringersi nelle spalle, già incamminata verso la porta con una virgola di sorriso stretta in bocca; – Tocca a me fare legna."

Mitchell, ancora spalmato sul tavolo come un gatto sornione, dondola la testa di lato e schianta in faccia al fratello minore un lampo comprensivo degli occhi ridenti. Marshall scrolla le spalle, tornando ad inghiottirsi il verdazzurro limpido e gravoso dello sguardo di sua nipote.

"Whatevs, kiddo. Lo vuoi vedere o no questo bambino."

Hope è rivoltato al centro letto di Nina, al piano di sopra, e quattro mesi di vita gli hanno asciugato le chiazze di petrolio degli occhi per rivelarne la trasparenza inconfondibile dei Lee; la testa tonda è un tappeto d’erba biondissima, le gengive nude impegnate a succhiare ogni lembo di pelle fradicia delle dita piccole come fiammiferi. Justice gli si avvicina con cautela riluttante, a naso sporto in avanti e mani intrecciate dietro la schiena, le spalle minute irrigidite come durante un’ispezione militare. Succhia l’interno di una guancia, affiancando il letto per valutare il cugino a testa reclinata sopra una spalla, poi verso l’altra.

"Ew." – l'esame si conclude con un versetto disgustato e un’arricciata di narici che squagliano una risata mal contenuta nel torace dei due fratelli rimasti a spintonarsi, come bambini troppo cresciuti, nella cornice della porta.

Justice guarda Hope, poi guarda Mitchell e Marshall.

"He’s snotty, and he’s ugly. – sentenzia, puntigliosa, recuperando il neonato con la coda dell'occhio e una scrollata di spalle. – … Not so bad, tho’."

Dondola il peso fra una gambetta e l’altra, scioglie il nodo delle dita dietro la schiena ed apre le braccia come un torero sotto la pioggia di fiori e baci del pubblico alla fine della corrida.

"Hope and Justice … – accartoccia un sorriso vispo dentro la guancia sinistra, – 

Sounds like a dream team, huh?"