giovedì, aprile 17

Welcome home.

Giugno 2511,
Bullfinch (Timisoara).
Esterno giorno.


A piedi dal campo d’atterraggio su cui li hanno sbattuti è lunga, ma l’impressione di non sentirsi più i muscoli è familiare, sedimentata come il fischio del mortaio nelle orecchie e il rimbombo di ogni detonazione in fondo al cranio. Timisoara sembra una città fantasma, isolati interi abbandonati e quartieri sfollati per paura delle bombe. La nebbia si è mangiata le pareti delle case, ha reso il legno marcio e la terra umida. Bullfinch accoglie i suoi sopravvissuti nella cornice spenta di un’estate spettrale, e la periferia della capitale non sembra più affollata della vetta delle St. Louis Mountains.

A venire fuori dalla porta del vecchio saloon è una sagoma sola, smagrita e fragile come i fili secchi dei capelli biondi, sporchi e annodati che ha appesi lungo le spalle. Si muove come se lo sterrato le dovesse cadere a pezzi sotto ai piedi, barcollando con le braccia strette al petto per tenerci inchiodato un fagotto di stracci laceri quanto la sua faccia rigata di polvere. Nina è sciupata dall’insonnia e dalle privazioni, ha la pelle sporca incollata alle ossa come una guaina pallida. La sensazione che il vuoto al suo fianco sia il risultato di una mutilazione non colpisce Marshall tanto in fretta quanto suo fratello. Nina è costretta a ingoiarsene lo sguardo disorientato come un macigno. Vacilla ed accomoda fra le braccia le pieghe irrequiete del groviglio di stracci.

"Lei non ce l’ha fatta."

Le gambe di Mitchell si spezzano come due rami secchi. Marshall non riesce ad afferrarlo prima che le ginocchia gli si schiantino nel fango e boccheggia, travolto dall'impotenza, raspando la desolazione opaca degli occhi di Nina che oscillano disperatamente fra i suoi e l’orrore umido, senza appigli, che ha reso lo sguardo del maggiore dei Lee profondo come una voragine.

"Fuck. – Marshall spazza i capelli sfatti con una manata urgente, arpionandoli per conficcarsi manciate di spilli dentro la cute, – … Che aspetti? Dagli il cazzo di bambino."

Nina si scuote, annuisce, si accoscia sui calcagni per ficcare il fagotto tra le braccia di Mitchell. Il peso insignificante di suo figlio gli restituisce il respiro, sfilando fuori piano la disperazione insinuata tra pelle e ossa ad impedirgli di avvertire il proprio corpo. Ricorda, poco a poco, dell’umidità affondata dolorosamente nel buco delle ferite rimarginate di fresco, dell’aderenza molle della fanghiglia sotto le ginocchia, del bruciore delle lacrime lungo le guance fattesi spigolose in trincea. Ricorda tutti i piccoli fastidi di un corpo malridotto e vivo. Si ricorda che ha fame, realizza che anche il bambino avrà fame, e quando finalmente, quasi senza pensarci, abbassa lo sguardo sui suoi lineamenti minuscoli, si accorge che il bambino è una femmina. E che è fregato. Deve rimettere insieme i pezzi in fretta e meglio che può, perché sua moglie se n’è andata scaricandogli il futuro tra le braccia.



Aprile 2516,
Bullfinch (Amarillo).
Esterno giorno.


La bambina bionda siede a gambe incrociate sul terriccio bruciato dagli aghi di pino e fissa la lapide bianca, incrostata di muschio, su cui l’uomo imponente alle sue spalle proietta di taglio la propria ombra immensa. La bambina ha occhi seri e limpidi, mani piccole a cui gli strascichi della guerra hanno teso la pelle sulle nocche spigolose. Deposita tre fiori dalla testa gialla davanti alla punta di cuoio dei propri scarponi.

"Anche se quest’anno la primavera è venuta nuda e un po’ malata, il Re Cervo me li ha fatti trovare per te. Vedi, questa sono io, questo è Hope. E questo è Bobby François."

L’uomo sfiata un grumo d’aria attraverso il naso, strofinandosi la nuca bionda con una mano larga e ancora indurita dai geloni invernali.

"Kiddo, Bobby François- …"

"… Riposa nella terra, lo so. Ma può avere un fiore anche lui?"

La bambina torce il collo sottile come lo stelo dei ranuncoli allineati in terra, rovesciando la testa per sbirciare l’uomo dal basso, di sottecchi, con un occhio semichiuso incontro al sole.

"Certo. Certo che può."

Justice Lee abbozza un sorriso furbo, soddisfatto, e si allunga di getto per schioccare un bacio sulla pietra fredda della lapide. Poi si appende alla mano di Mitchell per tornare in piedi, lasciandosi raccogliere fra le sue braccia come un fiore colto nel prato.

"Sono pesante?"

"Come un bue grasso."

"… Allora portami a casa in braccio."

Il sole bacia la terra ferita di Bullfinch che guarisce lentamente, seppellendo le cicatrici delle bombe fra le radici degli alberi.



Here, beneath my lungs, I feel your thumbs press into my skin again.