venerdì, agosto 29

Love is a doing word.

29 Agosto 2516,
Safeport (Sunset Tower).
Esterno notte.


Dodò non fiata da quando si sono lasciati l’Hydra alle spalle.
A labbra chiuse si chiede come sarà Bullfinch, e come saranno e il fratello e la sorella di White Daddy, se la porteranno veramente a fare il bagno nel lago e le lasceranno leggere i libri a voce alta per Hope Red, e se la cugina bionda che si chiama Justice sarà carina con lei o se dovrà darle un pugno in faccia o morderle un orecchio.
Cammina dritta come un soldatino, con i timori stretti dentro al petto magro e nei pugni chiusi lungo i fianchi, precedendo di due passi Marshall e il bambinetto biondo che, con una mano aggrappata ai suoi jens, un po’ tiene il passo e un po’ si lascia trascinare.
Fa un sacco di domande, Hope.

"Perché ci mandi via? Dobbiamo starci tanto tempo? Tu perché non vieni? Vai in prigione di nuovo? Ti porti anche mamma? Perché mamma ha fatto così quando le ho detto ciao?"

Marshall non abbassa lo sguardo, solcando le balaustre e i ponteggi dello spazioporto mentre distribuisce occhiate, come raffiche di mauler, allo sciame di uomini e donne armati che brulicano su e giù rendendo la torre un enorme termitaio.
L’hound di Moloko corre avanti, resta indietro, ma anche senza guinzaglio e senza disciplina non perde mai il passo, e bracca i bambini come un lupo a caccia di daini.

"Così come."

Hope si stringe nelle spalle senza rispondere, incespicando per stare dietro alle falcate brusche di suo padre con aria confusa, fiutando tensioni a cui non sa dare un nome.

"… E tu perché fai così?"

Marshall lo zittisce piazzandogli una manata in testa e se lo scrolla di dosso, inchiodando al cospetto dell’enorme ventre metallico di una nave che non è l’Almost Home: il Leprechaun, classe brigade, aspetta i suoi passeggeri a motori caldi.
L’uomo che si fa incontro a Lee per battergli una pacca sulla spalla e una testata sulla fronte è Paddy Jackson, un browncoat di Tauron che ha ancora qualche ciuffo di capelli fulvi dove l’esplosione di una granata su Spartaca non gli ha ustionato la cute.

"Non ci devi stare troppo dietro. – gli spiega il medico di Bullfinch che gli ha salvato un occhio e quasi tutto l’orecchio sinistro; – Basta che gli dai uno sguardo durante il viaggio e me li scarichi a Timisoara, mio fratello se li viene a prendere."

Né a Hope, né a Dodò la faccia bruciata di Paddy fa paura. Sono cresciuti in mezzo ai reduci, alle bande di Maracay, sotto il cielo ardente di Sunset Tower. Sono Marshall e Moloko a dire loro quali mostri sono mostri, e quali invece sono amici.
Dodò sta già sgambettando dietro a Mezza-faccia Jackson quando Marshall la richiama con un fischio, le dà una pacca sulla spalla che la fa traballare e un buffetto non tanto più tenero sulla guancia.

"Stai attenta a tuo fratello. – le dice, – … E stai attenta pure a te stessa, ricordati che nessuno c’ha il diritto di dirti quanto vali, perché sei figlia di tua madre e sei pure figlia mia."

Hope, quando il padre lo strattona per un braccio, si scuote e si ritrae con una smorfia riottosa.

"Non ci voglio andare a Bullfinch, pa’."

"Perché no?"

Hope non sa rispondere, solleva una mano per strofinarsi una guancia e scrolla la testa bionda con la rabbia scritta in faccia come un temporale.

"Hey, kiddo."

Marshall si piega sui calcagni e gli prende le spalle fra le mani enormi, tenendogli alto il muso con la pressione di un pollice.

"L’hai visto quel segno che ha tua madre in faccia, right? – piega la testa verso il basso, specchiando lo sguardo nelle pozze umide e confuse degli occhi del bambino; – … Il taglio gliel’ho ricucito io mentre il mondo ci cadeva a pezzi tutto intorno. Il suo viso e quello del mio pianeta hanno la stessa cicatrice, e sono bellissimi tutti e due."

Lo stesso pollice glielo sfila da sotto il mento per lisciargli l’attaccatura del naso, spianando il cipiglio contratto fra le sopracciglia chiare.

"Quando ci arrivi lo vedrai." – gli dice, spingendolo via.

Se ne rimane accosciato sul pontile a guardarli, una bambina nera e un bambino biondo che spariscono ingoiati dal metallo.

martedì, agosto 12

Sad-eyed lady of the lowlands.

15 Agosto 2516,
Bullfinch (Timisoara).
Interno giorno.


Seduto sul bordo del letto Marshall pinza fra le dita la radice del naso, massaggiando l’angolo interno degli occhi.

"… Da quant’è che ti scopi mio fratello?"

Susan conosce i fratelli Lee da sempre.
È nata ad Amarillo e ci è cresciuta proprio come loro. Suo padre Adam andava a caccia con Conner e fu tra i primi a fargli le condoglianze quando la moglie morì per dare alla luce l’ultima dei loro quattro figli.
Adam Butler e sua moglie Deanna, di figlie, ne hanno fatta una sola. La perla degli occhi di suo padre (con sua madre, per qualche ragione, non ci ha mai legato molto).
C’era una scuola sola, ad Amarillo. Ci insegnava Rita Lee, prima di morire, poi il pastore Bowen si era messo una mano rugosa sul cuore e aveva preso le redini dell’insegnamento, come gli piaceva dire a tutti. Era severo cinque volte la madre dei Lee, e tutti quanti invidiavano Maryanna Bowen perché il vecchio pastore era suo nonno e a tutti sembrava sempre che la trattasse con un riguardo tutto speciale.
A undici anni, Marshall Lee le ruba il fermacapelli di perline e si arrampica sull’albero più alto del cortile per lasciarlo appeso tra le foglie. Suo fratello Mitchell lo minaccia, ridendo, di spaccargli la faccia se non lo riporta indietro, ma Marshall non ne vuole sapere e Mitchell non gli spacca niente, e nemmeno ci sale lui, sull’albero, a recuperarle il fermaglio. Così quel fermaglio rimane lì per giorni, scintillando al sole come un fiore di luce incastonato tra il fogliame, e si riesce a vederlo dal basso e dalla finestra dell’aula, finché una mattina sparisce e tutti quanti pensano che se lo sia portato via una gazza ladra. Soltanto a quel punto a Susan viene da piangere.
A tredici Marshall, che di anni ne ha uno più di lei, lo trova che si lava la testa sotto la fontana dietro la chiesa. È sera, e il ragazzo di Conner ha il naso rotto perché, dice, suo padre ha picchiato sia lui che il fratello per il torello degli Hawkins che hanno cercato di rubare per cavalcarlo. Mitchell ci è montato sopra, dice, ci è rimasto sei secondi prima di finire sbattuto per terra. Dice che lui ci sarebbe rimasto sopra almeno otto secondi, se solo avesse avuto il tempo di salirci. Susan gli dice che a lei, suo padre, non le ha mai dato più che un paio di ceffoni quando si comportava proprio male, e Marshall le risponde che il vecchio Lee ha sempre messo le mani addosso un po’ a tutti, tranne che a Nina, ma che così è molto peggio perché Nina non la tocca mai, neanche per farle una carezza, come se ne avesse una paura fottuta. Poi se ne sta lì in silenzio a grondare acqua dai capelli per un po’, Marshall, tutto assorto; finché all’improvviso gli balena negli occhi quella luce là, la stessa del giorno che le ha rubato il fermaglio, e le stampa sulla bocca un bacio fresco e umido. Susan gli lascia il tempo che le ci vuole a spingere giù nello stomaco la vertigine che le è salita alla testa, poi gli molla uno schiaffo e se ne corre a casa.
Le piacevano, i fratelli Lee. Il modo in cui si guardavano le spalle a vicenda le faceva pensare ai lupi di montagna e le aggrovigliava in testa e nello stomaco un filo d’invidia.
Ha quattordici anni quando suo padre torna da una battuta di caccia coperto di sangue e senza più respiro nei polmoni.
Conner Lee riporta il suo corpo a casa e propone alla vedova disperata di sgravarle il peso della figlia, almeno per il tempo di organizzare il funerale e tutto il resto, prendendosela in casa coi suoi ragazzi. Susan sente sbocciare un fiore di sollievo nel petto schiacciato dalle lacrime quando sua madre accetta e la spedisce nella baita di legno fra i boschi. Dalla prima notte prende l’abitudine di sgusciare fuori dal suo letto, in camera di Nina, per scivolare in quello di Marshall e addormentarsi piangendo sopra la sua spalla, ma è solo dopo il terzo giorno che lui le bacia la bocca per non sentirla più piangere, dice, e al mattino sono nudi e stretti l’uno all’altra come i fili di una corda intrecciata.
Susan ritorna a casa e il tempo passa. Passano le prime sbronze, i primi tiri di Bloom; passano le nottate nel capannone di Bill Thornton. Ha diciott’anni quando sua madre decide di lasciare le montagne per trasferirsi a Camrose, a sud del Morgan River, e Susan le dice non ci vengo, ma’, buona fortuna, e si salutano con un abbraccio.
Intanto Mitchell Lee e Maryanna Bowen si fidanzano, lui mette la testa a posto per lei e smette di correre dietro alle altre, mentre con Marshall è tutto un tira e molla e lui le dice siamo giovani, Sue, è troppo presto per pensare a queste cose, e all’inizio è solo per farlo ingelosire che comincia a frequentare Butch.
Butch Fogerty è nato a Timisoara, lavora col rodeo e viene spesso ad Amarillo per trattare con gli Hawkins e i Miller la compravendita dei tori. È un anno più grande del maggiore dei Lee e non pensa che lui e Susan siano troppo giovani, ma non è il motivo per cui lei se ne innamora. Butch ha l’anima fresca e il cuore d’oro. All’improvviso Susan non ha più voglia di fare ingelosire Marshall; ha paura di spezzargli il cuore quando gli dice hey, Chino, dolcezza, ti devo parlare. E lui le chiede è per quel tizio del rodeo, Butch, ti ci hanno vista in giro e lo sai che in questo buco di paese le voci corrono. Però non è geloso, Marshall. Le dice che Butch lo conosce, coi tori ci lavorano insieme e a Sharon piace anche se non in quel modo lì, e che se piace a Sharon piace anche a lui e che per Susan lui ha sempre voluto solo il meglio, solo che il meglio per lei non era lui.
Per un anno va tutto bene.
Il giorno che Sharon Lee cade da cavallo e ci resta schiacciata sotto il mondo va in pezzi, e mentre Butch le stringe la mano Susan ci si aggrappa come se dovesse impedire che la voragine che si è aperta sotto ai piedi dei Lee s’ingoi anche lei.
Stretti nel dolore, Mitchell e Maryanna si sostengono a vicenda. Nina versa tutte le sue lacrime, le lascia seccare al sole finché il cuore inaridisce e Susan la vede crescere in fretta, trincerata nella convinzione che tutto il bene che hai ti può essere portato via e devi stare attenta a non farci mai troppo affidamento.
Marshall lo guarda colare a picco torcendosi le mani nell’impotenza. Certe volte si sente in colpa per averlo abbandonato, perché lei e Butch sono felici e hanno saputo scavalcare i cocci della tragedia mentre lui ci si ferisce ogni giorno, e una volta che lo trova non troppo fatto glielo dice, gli dice mi dispiace, e lui le dice lasciami perdere, lasciami perdere Suzie, e lei lo lascia perdere perché la vede, nei suoi occhi, la stessa vorgine alla quale è sfuggita aggrappandosi alla mano di Butch, e Butch è un brav’uomo, ma lei non può addossargli sulle spalle il peso di due disperazioni.
Ancora non lo sapeva, allora, che la guerra avrebbe sventrato il suo mondo come né la morte di suo padre né quella di Sharon Lee erano riuscite.
La guerra se li prende tutti.
Partono i due fratelli Lee e parte anche Butch, parte Tim Miller e partono gli Hawkins, padre e figlio. Mitchell fa in tempo a sposare Maryanna prima d’imbarcarsi per Spartaca, riesce a tornare su Bullfinch due volte, dislocato e poi in licenza, e la seconda riparte lasciando sua moglie incinta.
Butch non torna mai.
Muore in trincea che è il 2508, quasi quattro mesi prima che la notizia arrivi alla donna che l’ha amato e non ha fatto in tempo a sposarlo. Non in una chiesa. Non davanti a un pastore. Ma Susan Fogerty un altro marito non lo vorrà mai, e quando la guerra finisce e Maryanna è morta e Nina le ha cavato fuori la bambina dal ventre con un coltello sporco, dopo che i Lee sono tornati insieme, ancora vivi, ed è tornato Tom Hawkins senza suo padre, e dopo che la moglie di Samuel Noon è rimasta vedova con due figli, dopo che la guerra si è presa il bello e il buono della sua vita Susan si trasferisce al Golden Steer di Timisoara e si mette a fare la puttana, 'ché le servono i soldi e non la vuole più, una vita, non le vuole delle prospettive.
Scopre che regalare il suo corpo ai reduci la fa stare meglio, che le piace raccogliere il loro dolore nel proprio ventre, il modo in cui le si aggrappano addosso, il modo in cui riesce ad annullare se stessa nel bisogno che hanno di sfuggire ai propri demoni fra le braccia di una donna che li accolga senza nome, senza pretese, per qualche ora. Marshall Lee, che dalla guerra è tornato sobrio e concreto come non era più stato da anni, qualche volta la va a trovare. Scopare con Marshall le piace, ma in modo diverso. È come ritrovare una vecchia abitudine un po’ dolce, un po’ amara.
La seconda guerra che squassa e rivolta la pelle di Bullfinch non riesce a farla soffrire quanto la prima. Malgrado le bombe. Malgrado la paura per gli affetti che le sono rimasti, per la bambina dei Lee e per le ragazze del Golden Steer.
Lei e Nina si danno da fare come possono, come durante la prima guerra, e quando Bobby Noon si spegne sul campo Susan è lì per aiutarla a raccogliere i pezzi, per mentirle dicendole che il dolore passa, sparisce. Nina non ci crede, ma non piange mai. Non piange più da quando si sono scritte a vicenda sulla pelle, a filo d’inchiostro, una rondine libera come le anime care volate verso il cielo e come la promessa di non lasciarsi ancorare a terra dal dolore.
Marshall parte, torna di rado. A trovarla al Golden Steer ci viene prima meno spesso, poi non ci viene più, finché non le porta suo figlio per farglielo vedere come se fosse il bambino più bello del ’Verse ed è vero, lo è. È il bambino più bello del ’Verse e guardarlo la fa felice e insieme le spezza il cuore.
E adesso Marshall Lee è seduto sul bordo del suo letto, nella soffitta del Golden Steer, e le chiede da quant’è che ti scopi mio fratello.

Susan si accende una sigaretta, ritta in piedi sulle gambe magre, un fascio di carne sottile e muscoli tenaci stoicamente piantati di fronte a lui.

"Non sei mai stato geloso, adesso non mi verrai a dire che lo sei di tuo fratello."

Marshall spazza i capelli sfatti con una manata nervosa, piena di disagio.

"Non è che sono geloso, non sono un cazzo geloso. Ma cazzo Sue, dài, tu fai la puttana."

"Allora? – Susan appende al filtro un sorriso sornione; – Non è mai stato un problema, per te."

"Io non sono Mitchell."

Susan sospira, si stringe nelle spalle.

"Sa il Signore quanto è vero."

Poi alza gli occhi al soffitto e passa una mano fra i capelli neri, scorciati sopra le spalle in fili morbidi e lucenti.

"Di', te l’è venuto a raccontare Nina?"

Marshall rivolta un ghigno crudo sulle guance ispide.

"Me l’ha detto Mitch, chi vuoi che me lo abbia detto."

Susan scrolla la testa, raccoglie il labbro inferiore sotto ai denti e lo schiaccia fino a sbiancare la carne.

"Dovevo immaginarmelo."

Il minore dei Lee si tira in piedi, allunga una mano callosa per farsi cedere la sigaretta.
Mentre trascina il fumo nei polmoni Susan gli appoggia una mano sopra la spalla, sfogliando col pollice i tendini tesi e le vene che gli palpitano sul lato del collo.

"Ascoltami, Chino. Io e tuo fratello cerchiamo la stessa cosa, una pezza per il buco che abbiamo dentro … Senza impegno, senza progetti. Justice mi conosce, mi vuole bene, e Mitchell non si deve preoccupare di infilare una nuova donna nella sua vita, e- …"

Viene interrotta dallo scrollone di muscoli aspri col quale Marshall l’allontana da sé, allungando le dita ruvide in cerca del suo polso.

"È una cosa seria?" – le fissa il palmo della mano come a trovarci la risposta scritta dentro i solchi della pelle.

"Non lo so, dolcezza."

Susan ritrae la mano lentamente, torcendo il polso stretto per divincolarsi fra le sue dita.
Lui la lascia andare.

"Magari ti serve un po’ di tempo per abituarti all’idea."

Il sorriso triste e dolce che le falcia la faccia bruna gli fa stringere le ciglia come un fascio di luce. Vorrebbe tapparglielo con un bacio, ma stropiccia una smorfia da canaglia e scrolla le spalle larghe.

"Che stronzo. – grugnisce, restituendole la sigaretta. – Me l’aveva detto che prima o poi mi avrebbe fregato la ragazza."

Quando la sente ridere forte, come uno schiaffo di corrente arrampicata lungo i muscoli, si ricorda che per Susan ha sempre voluto solo il meglio.

Solo che il meglio per lei non è mai stato lui.

giovedì, agosto 7

Summer of ’04.

6 Agosto 2504,
Bullfinch (Amarillo).
Esterno giorno.


Il lenzuolo steso sull’erba è sgualcito dal rivoltarsi indolente dei loro corpi sdraiati all’ombra. Il sole lampeggia, tra le fronde larghe, come le cento facce di un diamante, e i capelli di Maryanna sono sparpagliati fra le pieghe della stoffa come raggi di luce caduti a terra.
Si gira lentamente su di un fianco snello, affondando il mento contro la spalla del ragazzone alto, solido, che la supera in altezza di tutte le spalle.

"Ieri ho incontrato Chino dietro al ferramenta, mi ha offerto della bloom."

Mitchell le stropiccia sul palmo della mano odorosa d’erba un sorriso dalla piega sardonica.

"Mi stupisce che non ti abbia offerto dell’altro."

Le biascica contro la pelle un 'ponyboy' sghignazzato, annusandole le dita ad occhi chiusi.
Li riapre, rivoltandogliene in faccia il verdazzurro terso e luminoso.

"… L’hai accettata?"

Lei si stringe nelle spalle con un sorriso teso, mezzo sfrontato e mezzo sfilacciato nell’apprensione. Prende un respiro e scrolla un assenso pigro con la testa, soffiando via qualche ciocca lunga con aria pretenziosamente svagata; sbirciando il maggiore dei Lee con la coda degli occhi verdi.

"Then he grabbed my face and kiss’d me. Deeply."


[…]

Marshall è seduto sul divano con un libro aperto fra le mani, talmente immerso nella lettura da non fare caso alla porta che si apre, poi sbatte; ai passi pesanti sulle assi del pavimento.
Solleva il muso appena in tempo per intercettare, con un’occhiata impreparata, le cinque dita robuste che gli strappano il libro di mano per scaraventarlo a terra. Nei muscoli gli è esplosa la torsione necessaria ad alzarsi quando la mano aperta di Mitchell lo risbatte a sedere, inchiodandogli le scapole contro lo schienale.

"Brutta faccia da culo."

Marshall rovescia occhi disorientati e fervidi a nello sguardo crepitante, brillante di un’irritazione fonda e brutale, del fratello maggiore.

"Oh, che cazzo ti ho fatto?"

Grugnisce, informandosi con la leggerezza cruda di chi ha la coscienza troppo sporca per cadere dalle nuvole, aprendo le mani all’altezza delle spalle percorse da un fremito irrequieto.
Mitchell rivolta sulle guance un ghigno scalpitante di fastidio.

"Ti devi imparare a tenere la lingua in bocca e la bocca al posto suo, Chino."

Nelle pupille di Marshall si torce un lampo di comprensione sfottente, che sbroglia lungo i muscoli un filo d’allerta.

"So wut. – arriccia un sorriso da lupo sul muso angoloso; – … Mi hai detto che c’ha le labbra più fottutamente morbide del pianeta, ti aspettavi pure che non ci andassi a mettere la bocca per provarle?"

Mitchell ride, tenendolo per il bavero. Ride forte.
Poi gli scarica un pugno in faccia.

Sharon passa la serata, dopo averli separati a calci, a imbustare ghiaccio per i lividi.




[Maryanna Bowen, 2504, Bullfinch]

venerdì, agosto 1

But what ends when the symbols shatter?

31 Luglio 2516,
Safeport (O’Malley).
Interno giorno.


Marshall non mette piede in chiesa dal matrimonio di Edwards e Haggerty. Non mette piede in chiesa spontaneamente da prima della guerra che lo ha istruito sui cento modi di ricucire un uomo e sull’inesistenza di Dio.
La cappella incastonata fra i vicoli sporchi del quartiere O’Malley non la frequenta più nessuno da quando uno dei muri è parzialmente crollato per una piena di fango. La terra sudicia e inquinata si è conquistata una metà della navata stretta, povera come il legno marcio delle panche e la croce arrugginita inchiodata sulla parete di fondo; gli scarponi da lavoro di Lee la calpestano e la rivoltano nell’avanzata cruda, incerta e insieme sfrigolante di energia impaziente, con cui si lascia risucchiare dalle viscere dell’edificio.
Manda giù un mattone di saliva sguinzagliando occhi troppo chiari, arrossati dalla carenza di sonno, fra i sedili e le ombre che la luce amaranto del cielo opaco di Safeport, filtrata dalla nebbia itterica che inumidisce le strade, gonfia e inasprisce scivolando di taglio attraverso il portone semichiuso. Un secondo bolo umido lo raccoglie tra lingua e palato per sputarlo sul pavimento, trascinando una mano contro la testa bruna e scarmigliata, prima di aggrapparle tutte e due alle braccia massicce della croce inchiodata al muro per appendercisi, rovesciando la fronte sul metallo.

"C'mon, Jeez, è la tua grande occasione."

Mormora, trascinando dentro le narici l’odore della ruggine e rivoltando il mento contro il ferro per sbirciarne l’estremità superiore, inseguendone la direttrice fino all’intonaco cadente del soffitto.
Strizza un occhio incontro alla polvere che gli piove in faccia.

"… Dimmi cosa devo fare."

Dentro le orecchie gli rimbomba solo il silenzio, e nella testa la voce di Elian si schianta a strati come la risacca. Non tratto tutti come fossero fratelli miei, Lee. Neanche i miei fratelli. Non tratto tutti come fossero fratelli miei. Solo te. Neanche i miei fratelli.
Solo te.

"Dimmi perché questa storia continua a perseguitarmi."

Marshall preme e raschia la fronte sulla ruggine, trascinando contro la pelle un alone rosso come il sangue secco. La frustata di muscoli che gli risale la schiena spinge dentro le spalle uno strattone violento, che fa sgretolare a terra grossi grumi di calcestruzzo, ma insufficiente a staccare la grande croce di ferro dal muro.

"Dì qualcosa, cazzo. Dimmi come sono finito qui, dimmi perché le bombe su Bullfinch, perché abbiamo perso la guerra … Dimmi che posso andare da quella stronza e spiegarle perché dovrei ficcarle un proiettile in testa, e pregarla di aiutarmi trovare un modo per non farlo, dimmi dove ho sbagliato per tornare di nuovo a questo punto come un cane rognoso che insegue la sua coda di merda, dimmi perché, vaffanculo!"

Molla le braccia della croce per schiantarci sopra il palmo delle mani con uno schiocco che gli manda a fuoco la carne ispessita dai calli. Barcolla, come se la violenza stessa dell’impatto lo avesse scaraventato indietro, espettora un paio di ansiti spezzati e torna a strattonare il metallo, con le tempie pulsanti e le dita insensibili al graffio della ruggine, finché i chiodi cedono e la croce gli resta fra le mani, pesante quanto suo figlio di quattro anni.

"I’m your sheep, asshole. Enlight my fuckin’ path."

Il clangore dell’ornamento di ferro sbattuto sul pavimento è acuto e gli vibra fin dentro le ossa, ma torce i muscoli e contrae la schiena larga per trascinare e scaraventare la croce sui banchi di preghiera allineati senza ordine. Il legno fradicio si sfonda, con un tonfo, liberando una nube di minuscole termiti d’argento.
Marshall si piega sulle ginocchia, spegne una risata nervosa contro il palmo delle mani impolverate dalla ruggine e ne respira l’odore avidamente, in silenzio, ricacciando indietro le lacrime e lo smarrimento. Deglutendo la disperazione per sollevare il mento e digrignare un sorriso sprezzante in faccia al soffitto annerito dalle infiltrazioni.

"Non mi puoi dire un cazzo perché non esisti. Non esisti, stronzo."

Si tira in piedi incespicando, bruciando falcate nervose nell’urgenza di riconquistarsi lo spazio aperto e il cielo inquinato di Sunset Tower, con un solo appiglio sicuro nel mare dell’incertezza.

Che il peso del ‘Verse sta tutto sulle spalle degli uomini.





But, what ends when the symbols shatter?
And, who knows what happens to hearts?