martedì, agosto 12

Sad-eyed lady of the lowlands.

15 Agosto 2516,
Bullfinch (Timisoara).
Interno giorno.


Seduto sul bordo del letto Marshall pinza fra le dita la radice del naso, massaggiando l’angolo interno degli occhi.

"… Da quant’è che ti scopi mio fratello?"

Susan conosce i fratelli Lee da sempre.
È nata ad Amarillo e ci è cresciuta proprio come loro. Suo padre Adam andava a caccia con Conner e fu tra i primi a fargli le condoglianze quando la moglie morì per dare alla luce l’ultima dei loro quattro figli.
Adam Butler e sua moglie Deanna, di figlie, ne hanno fatta una sola. La perla degli occhi di suo padre (con sua madre, per qualche ragione, non ci ha mai legato molto).
C’era una scuola sola, ad Amarillo. Ci insegnava Rita Lee, prima di morire, poi il pastore Bowen si era messo una mano rugosa sul cuore e aveva preso le redini dell’insegnamento, come gli piaceva dire a tutti. Era severo cinque volte la madre dei Lee, e tutti quanti invidiavano Maryanna Bowen perché il vecchio pastore era suo nonno e a tutti sembrava sempre che la trattasse con un riguardo tutto speciale.
A undici anni, Marshall Lee le ruba il fermacapelli di perline e si arrampica sull’albero più alto del cortile per lasciarlo appeso tra le foglie. Suo fratello Mitchell lo minaccia, ridendo, di spaccargli la faccia se non lo riporta indietro, ma Marshall non ne vuole sapere e Mitchell non gli spacca niente, e nemmeno ci sale lui, sull’albero, a recuperarle il fermaglio. Così quel fermaglio rimane lì per giorni, scintillando al sole come un fiore di luce incastonato tra il fogliame, e si riesce a vederlo dal basso e dalla finestra dell’aula, finché una mattina sparisce e tutti quanti pensano che se lo sia portato via una gazza ladra. Soltanto a quel punto a Susan viene da piangere.
A tredici Marshall, che di anni ne ha uno più di lei, lo trova che si lava la testa sotto la fontana dietro la chiesa. È sera, e il ragazzo di Conner ha il naso rotto perché, dice, suo padre ha picchiato sia lui che il fratello per il torello degli Hawkins che hanno cercato di rubare per cavalcarlo. Mitchell ci è montato sopra, dice, ci è rimasto sei secondi prima di finire sbattuto per terra. Dice che lui ci sarebbe rimasto sopra almeno otto secondi, se solo avesse avuto il tempo di salirci. Susan gli dice che a lei, suo padre, non le ha mai dato più che un paio di ceffoni quando si comportava proprio male, e Marshall le risponde che il vecchio Lee ha sempre messo le mani addosso un po’ a tutti, tranne che a Nina, ma che così è molto peggio perché Nina non la tocca mai, neanche per farle una carezza, come se ne avesse una paura fottuta. Poi se ne sta lì in silenzio a grondare acqua dai capelli per un po’, Marshall, tutto assorto; finché all’improvviso gli balena negli occhi quella luce là, la stessa del giorno che le ha rubato il fermaglio, e le stampa sulla bocca un bacio fresco e umido. Susan gli lascia il tempo che le ci vuole a spingere giù nello stomaco la vertigine che le è salita alla testa, poi gli molla uno schiaffo e se ne corre a casa.
Le piacevano, i fratelli Lee. Il modo in cui si guardavano le spalle a vicenda le faceva pensare ai lupi di montagna e le aggrovigliava in testa e nello stomaco un filo d’invidia.
Ha quattordici anni quando suo padre torna da una battuta di caccia coperto di sangue e senza più respiro nei polmoni.
Conner Lee riporta il suo corpo a casa e propone alla vedova disperata di sgravarle il peso della figlia, almeno per il tempo di organizzare il funerale e tutto il resto, prendendosela in casa coi suoi ragazzi. Susan sente sbocciare un fiore di sollievo nel petto schiacciato dalle lacrime quando sua madre accetta e la spedisce nella baita di legno fra i boschi. Dalla prima notte prende l’abitudine di sgusciare fuori dal suo letto, in camera di Nina, per scivolare in quello di Marshall e addormentarsi piangendo sopra la sua spalla, ma è solo dopo il terzo giorno che lui le bacia la bocca per non sentirla più piangere, dice, e al mattino sono nudi e stretti l’uno all’altra come i fili di una corda intrecciata.
Susan ritorna a casa e il tempo passa. Passano le prime sbronze, i primi tiri di Bloom; passano le nottate nel capannone di Bill Thornton. Ha diciott’anni quando sua madre decide di lasciare le montagne per trasferirsi a Camrose, a sud del Morgan River, e Susan le dice non ci vengo, ma’, buona fortuna, e si salutano con un abbraccio.
Intanto Mitchell Lee e Maryanna Bowen si fidanzano, lui mette la testa a posto per lei e smette di correre dietro alle altre, mentre con Marshall è tutto un tira e molla e lui le dice siamo giovani, Sue, è troppo presto per pensare a queste cose, e all’inizio è solo per farlo ingelosire che comincia a frequentare Butch.
Butch Fogerty è nato a Timisoara, lavora col rodeo e viene spesso ad Amarillo per trattare con gli Hawkins e i Miller la compravendita dei tori. È un anno più grande del maggiore dei Lee e non pensa che lui e Susan siano troppo giovani, ma non è il motivo per cui lei se ne innamora. Butch ha l’anima fresca e il cuore d’oro. All’improvviso Susan non ha più voglia di fare ingelosire Marshall; ha paura di spezzargli il cuore quando gli dice hey, Chino, dolcezza, ti devo parlare. E lui le chiede è per quel tizio del rodeo, Butch, ti ci hanno vista in giro e lo sai che in questo buco di paese le voci corrono. Però non è geloso, Marshall. Le dice che Butch lo conosce, coi tori ci lavorano insieme e a Sharon piace anche se non in quel modo lì, e che se piace a Sharon piace anche a lui e che per Susan lui ha sempre voluto solo il meglio, solo che il meglio per lei non era lui.
Per un anno va tutto bene.
Il giorno che Sharon Lee cade da cavallo e ci resta schiacciata sotto il mondo va in pezzi, e mentre Butch le stringe la mano Susan ci si aggrappa come se dovesse impedire che la voragine che si è aperta sotto ai piedi dei Lee s’ingoi anche lei.
Stretti nel dolore, Mitchell e Maryanna si sostengono a vicenda. Nina versa tutte le sue lacrime, le lascia seccare al sole finché il cuore inaridisce e Susan la vede crescere in fretta, trincerata nella convinzione che tutto il bene che hai ti può essere portato via e devi stare attenta a non farci mai troppo affidamento.
Marshall lo guarda colare a picco torcendosi le mani nell’impotenza. Certe volte si sente in colpa per averlo abbandonato, perché lei e Butch sono felici e hanno saputo scavalcare i cocci della tragedia mentre lui ci si ferisce ogni giorno, e una volta che lo trova non troppo fatto glielo dice, gli dice mi dispiace, e lui le dice lasciami perdere, lasciami perdere Suzie, e lei lo lascia perdere perché la vede, nei suoi occhi, la stessa vorgine alla quale è sfuggita aggrappandosi alla mano di Butch, e Butch è un brav’uomo, ma lei non può addossargli sulle spalle il peso di due disperazioni.
Ancora non lo sapeva, allora, che la guerra avrebbe sventrato il suo mondo come né la morte di suo padre né quella di Sharon Lee erano riuscite.
La guerra se li prende tutti.
Partono i due fratelli Lee e parte anche Butch, parte Tim Miller e partono gli Hawkins, padre e figlio. Mitchell fa in tempo a sposare Maryanna prima d’imbarcarsi per Spartaca, riesce a tornare su Bullfinch due volte, dislocato e poi in licenza, e la seconda riparte lasciando sua moglie incinta.
Butch non torna mai.
Muore in trincea che è il 2508, quasi quattro mesi prima che la notizia arrivi alla donna che l’ha amato e non ha fatto in tempo a sposarlo. Non in una chiesa. Non davanti a un pastore. Ma Susan Fogerty un altro marito non lo vorrà mai, e quando la guerra finisce e Maryanna è morta e Nina le ha cavato fuori la bambina dal ventre con un coltello sporco, dopo che i Lee sono tornati insieme, ancora vivi, ed è tornato Tom Hawkins senza suo padre, e dopo che la moglie di Samuel Noon è rimasta vedova con due figli, dopo che la guerra si è presa il bello e il buono della sua vita Susan si trasferisce al Golden Steer di Timisoara e si mette a fare la puttana, 'ché le servono i soldi e non la vuole più, una vita, non le vuole delle prospettive.
Scopre che regalare il suo corpo ai reduci la fa stare meglio, che le piace raccogliere il loro dolore nel proprio ventre, il modo in cui le si aggrappano addosso, il modo in cui riesce ad annullare se stessa nel bisogno che hanno di sfuggire ai propri demoni fra le braccia di una donna che li accolga senza nome, senza pretese, per qualche ora. Marshall Lee, che dalla guerra è tornato sobrio e concreto come non era più stato da anni, qualche volta la va a trovare. Scopare con Marshall le piace, ma in modo diverso. È come ritrovare una vecchia abitudine un po’ dolce, un po’ amara.
La seconda guerra che squassa e rivolta la pelle di Bullfinch non riesce a farla soffrire quanto la prima. Malgrado le bombe. Malgrado la paura per gli affetti che le sono rimasti, per la bambina dei Lee e per le ragazze del Golden Steer.
Lei e Nina si danno da fare come possono, come durante la prima guerra, e quando Bobby Noon si spegne sul campo Susan è lì per aiutarla a raccogliere i pezzi, per mentirle dicendole che il dolore passa, sparisce. Nina non ci crede, ma non piange mai. Non piange più da quando si sono scritte a vicenda sulla pelle, a filo d’inchiostro, una rondine libera come le anime care volate verso il cielo e come la promessa di non lasciarsi ancorare a terra dal dolore.
Marshall parte, torna di rado. A trovarla al Golden Steer ci viene prima meno spesso, poi non ci viene più, finché non le porta suo figlio per farglielo vedere come se fosse il bambino più bello del ’Verse ed è vero, lo è. È il bambino più bello del ’Verse e guardarlo la fa felice e insieme le spezza il cuore.
E adesso Marshall Lee è seduto sul bordo del suo letto, nella soffitta del Golden Steer, e le chiede da quant’è che ti scopi mio fratello.

Susan si accende una sigaretta, ritta in piedi sulle gambe magre, un fascio di carne sottile e muscoli tenaci stoicamente piantati di fronte a lui.

"Non sei mai stato geloso, adesso non mi verrai a dire che lo sei di tuo fratello."

Marshall spazza i capelli sfatti con una manata nervosa, piena di disagio.

"Non è che sono geloso, non sono un cazzo geloso. Ma cazzo Sue, dài, tu fai la puttana."

"Allora? – Susan appende al filtro un sorriso sornione; – Non è mai stato un problema, per te."

"Io non sono Mitchell."

Susan sospira, si stringe nelle spalle.

"Sa il Signore quanto è vero."

Poi alza gli occhi al soffitto e passa una mano fra i capelli neri, scorciati sopra le spalle in fili morbidi e lucenti.

"Di', te l’è venuto a raccontare Nina?"

Marshall rivolta un ghigno crudo sulle guance ispide.

"Me l’ha detto Mitch, chi vuoi che me lo abbia detto."

Susan scrolla la testa, raccoglie il labbro inferiore sotto ai denti e lo schiaccia fino a sbiancare la carne.

"Dovevo immaginarmelo."

Il minore dei Lee si tira in piedi, allunga una mano callosa per farsi cedere la sigaretta.
Mentre trascina il fumo nei polmoni Susan gli appoggia una mano sopra la spalla, sfogliando col pollice i tendini tesi e le vene che gli palpitano sul lato del collo.

"Ascoltami, Chino. Io e tuo fratello cerchiamo la stessa cosa, una pezza per il buco che abbiamo dentro … Senza impegno, senza progetti. Justice mi conosce, mi vuole bene, e Mitchell non si deve preoccupare di infilare una nuova donna nella sua vita, e- …"

Viene interrotta dallo scrollone di muscoli aspri col quale Marshall l’allontana da sé, allungando le dita ruvide in cerca del suo polso.

"È una cosa seria?" – le fissa il palmo della mano come a trovarci la risposta scritta dentro i solchi della pelle.

"Non lo so, dolcezza."

Susan ritrae la mano lentamente, torcendo il polso stretto per divincolarsi fra le sue dita.
Lui la lascia andare.

"Magari ti serve un po’ di tempo per abituarti all’idea."

Il sorriso triste e dolce che le falcia la faccia bruna gli fa stringere le ciglia come un fascio di luce. Vorrebbe tapparglielo con un bacio, ma stropiccia una smorfia da canaglia e scrolla le spalle larghe.

"Che stronzo. – grugnisce, restituendole la sigaretta. – Me l’aveva detto che prima o poi mi avrebbe fregato la ragazza."

Quando la sente ridere forte, come uno schiaffo di corrente arrampicata lungo i muscoli, si ricorda che per Susan ha sempre voluto solo il meglio.

Solo che il meglio per lei non è mai stato lui.