giovedì, ottobre 16

I’m carrying my heart but it’s made of stone.

15 Ottobre 2516,
Safeport (Almost Home).
Interno notte. 


La cabina si stringe e si dilata, avvitandosi su se stessa come un incubo di lamiera, e le ossa palpitano di febbre mentre sulla pelle si arrampica un formicolio feroce che striscia sotto le pieghe dei vestiti zuppi di sudore, pesanti come se fossero cuciti nel piombo.
I boati del cuore rimbombano come un’eco lontana e le costole, rese ingannevolmente fragili dall’indolenzimento, ne amplificano la corsa angosciante contro il tempo immobile, che sembra non scorrere mai.


Spartaca, 2509.

Marshall ha venticinque anni, Joan Greene trentanove. È la creatura più rigorosa che Lee abbia mai conosciuto.
Tra un incubo colloso e un delirio ad occhi aperti la vede affiorare al proprio fianco per costringerlo a bere acqua fresca, asciugandogli il sudore dalla fronte e vegliandolo come un severo guardiano di pietra.

"È la terza, quarta volta?"

La sua voce roca e femminile si fa largo attraverso gli strati di paranoia che gli ovattano le orecchie, pungolandolo come la punta di un forcone e spingendo contro le guance ripide un ghigno esausto.

"… La quinta."

Cavarsi una risposta gli costa un brivido profondo, sgradevole quanto l’impressione che una lama di fiato gli stia intaccando le costole dall’interno.

"Sei un masochista disperato, Lee. – Joan conserva tutto il tatto di cui è capace per le delicate incursioni delle dita nella carne dei militari feriti; – … Devi spezzare questo circolo vizioso, ragazzo. Smettere di farti e poi ricominciare ogni due mesi non ti terrà fuori dalla tomba, ti ci farà sprofondare più in fretta."

Marshall ascolta senza sentire. La voce della dottoressa di Blackrock è ruvida e calda come il velluto, se la sente strisciare sulla carne sudata in un impulso tattile inspiegabilmente carico di significato. Non è la verità che gli viene imboccata, forse, a stringergli la bocca dello stomaco nel pugno invisibile di un conato di nausea.

"Dov’è tuo marito, doc?" – vorrebbe suonare sfottente, meno esasperato dal dolore, mentre sbroglia la stessa domanda con cui l’avrà pungolata un centinaio di volte.

Non si aspetta di ricevere una risposta.

"Non mi sono mai sposata."

"Uhh, really? … Then you shou’d like, kiss me, or s'mthin’."

Nessuno ha mai visto sorridere la dottoressa Greene, i segmenti retti e gli spigoli implacabili del suo viso lentigginoso nascondono la dolcezza come le spine dell’agave ne difendono la polpa profumata.
Gli scosta i capelli dalla fronte madida con una smorfia neutrale.

"… When you get clean, maybe."


Safeport, Almost Home.

Il cortex pad deve trillare parecchie volte prima che il suono riesca a bucare la patina d’insofferenza ed apnea acquatica in cui è immersa la testa di Marshall, che si torce confusamente sulla branda per vincere i crampi cocenti dei muscoli e rivoltarsi il display sotto gli occhi appannati.
Le lettere digitali si mischiano e si squagliano l’una nell’altra.

Il Core sotto attacco: è strage.

Mette a fuoco con fatica. Diversi satelliti Ikon hanno, simultaneamente, aperto il fuoco sui tre mondi del Core. I dettagli dell’articolo gli si attorcigliano nel cervello, arrampicandosi sotto la pelle come un prurito incontenibile.
Mai, nella sua storia, il Core ha subìto un attacco così devastante, proditorio, proprio nel cuore dei mondi che sono colonna portante dell’Alleanza.

Scoppia a ridere, costretto a vomitare l’ilarità insieme ai succhi gastrici nel secchio di ferro ai piedi del letto.




See I left my mother’s heart,
See I left my father’s home,
And I fell into a well of hope…
 

I’m carrying my heart but it’s made of stone;
I’m carrying my heart, but my heart is made of stone.

lunedì, ottobre 13

I can’t drown my demons, they know how to swim.

12 Ottobre 2516,
Almost Home (Sickbay).
Interno notte.


Non dentro il braccio, pensa Marshall Lee.
La porta della sickbay è sigillata dall’interno, le brande vuote, il tavolo operatorio illuminato dall’alone bianco della lampada scialitica rivoltata contro l’acciaio del soffitto. Immersa in un silenzio irreale, l’infermeria è un sistema isolato: ogni rumore ingoiato dalla fame che gli vibra fra le tempie.
Non dentro il braccio.
Solleva l’orlo della canotta lisa, accartocciando le pieghe del tessuto fra le dita, e spinge quello dei jeans sbottonati verso il basso per snudare la linea di giunzione fra il bacino e la coscia destra. Tiene le dita ferme, respira, liscia la carne tesa col pollice per aiutarsi a trovare il tracciato azzurrino della vena.



27 Aprile 2505,
Bullfinch (Providence).
Esterno notte.


Ognuno ha bisogno di autodistruggersi a modo suo, Dorian Beckett lo sa.
Il cielo nero di Providence gli vortica sopra la testa, stonato dal pieno di whiskey che si è versato in gola. Trascina le dita di una mano fra i riccioli fulvi, li stira e li rivolta nel tentativo di dipanare il filo aggrovigliato del proprio orientamento.
Ognuno ha bisogno di autodistruggersi a modo suo.
Sua madre si schiantava contro le nocche di suo padre come la risacca sugli scogli. Ancora e ancora e ancora. Più lui si avvelenava di gelosia, più la batteva forte, più lei sgusciava fuori di casa durante la notte, dentro ai letti dei suoi amici, dei suoi nemici, di tutto il branco d’uomini che le avrebbero messo le mani addosso nonostante i lividi.
Il vecchio Beckett la picchiava e beveva, beveva e la picchiava. Beveva per avere il coraggio di picchiarla, per dimenticarsi l’amore sotto i calli delle mani ruvide con cui le rivoltava la faccia. Beveva per farsi consumare dall’alcol prima che dalla guerra furiosa fra l’odio mai sazio e il senso di colpa.
Se ci pensa adesso che è ubriaco (e fa in modo di non doverci mai pensare da sobrio) gli sembra che, dopotutto, suo padre non avesse scelta. Doveva ammazzare sua madre prima che fossero i suoi tradimenti ad ammazzare lui. Conquistarsi con ogni grammo di violenza l’agonia solitaria della cirrosi che l’avrebbe stroncato, in gloria, dieci anni dopo.
Appoggiato contro la porta chiusa dell’officina, Dorian vacilla sulle gambe e cerca per la quarta volta di accendersi la sigaretta con un fiammifero carbonizzato.
Per qualche ragione non si sorprende quando qualcuno, attraverso il buio, gli allunga sotto il naso la fiamma di un accendino.



24 Aprile 2505,
Bullfinch (New Dallas).
Interno giorno.


Persino i morti parlano, per chi è capace di ascoltarli, ma non hanno mai niente di allegro da dire.
Spogliare sua sorella gli ha spinto sotto la pelle una nausea tanto più simile alla disperazione che al disgusto, ma Marshall ha tirato avanti con l’urgenza brusca della necessità, accantonando un tentennamento dopo l’altro, ricacciando indietro con ostinazione la sensazione che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in ogni gesto che compie come in una corsa verso l’irrimediabile.
Si ricorda di quando facevano il bagno nel torrente, nudi nel gelo frizzante di Marzo, intirizziti e leggeri come le rondini addensate contro il cielo in stormi geometrici.
Il corpo che scopre un palmo alla volta non assomiglia a niente che abiti la sua memoria. È freddo e rigido, gommoso e incolore.
Marshall sfiora le costole disallineate, spezzate dagli zoccoli di Hooligan come rami secchi e rimesse faticosamente insieme sotto i lembi di carne ricucita, lavata, bianca come una guaina di lattice.
Un’autopsia non è mai un lavoro piacevole.
Marshall deve fermarsi a vomitare due volte prima di lasciare la camera mortuaria: il primo conato lo travolge che non ha nemmeno cominciato a inseguire il tracciato dei lividi e dei morsi che, dall’ansa generosa dei fianchi, percorre l’addome di Sharon come un’infiorescenza violacea.
Il secondo arriva quando scopre fin dove si sono spinti i segni della violenza.



12 Ottobre 2516,
Almost Home (Sickbay).
Interno notte.


Il proiettile d’estasi liquida che gli affonda nel cervello dilata i raggi della lampada scialitica come lo zampillare di una fontana di luce. L’insofferenza si squaglia e i muscoli perdono la presa sulle ossa, diluendosi in una pace molle senza il bisogno di correre, di sfinirsi, di prendere a pugni le pareti per liberare la tensione spasmodica di carni plasmate nella rivolta.
Il piano rigido del lettino operatorio sembra ingoiarselo come fango caldo, quando si sdraia e lascia colare verso il pavimento le dita appesantite dall’hypospray, svuotandosi il cervello nel lampo abbacinante di piacere sintetico che lo trascina alla deriva, soffocando il martellare della coscienza.



29 Aprile 2505,
Bullfinch (Amarillo).
Interno giorno.


Mitchell lo trova strafatto, seduto sulle assi di legno del salotto affettato dalle ombre lunghe dell’alba, che fissa il divano con l’aria vacua e assieme concentrata di chi stava cercando la forza di tirarsi in piedi quando ha perso il filo del discorso coi propri muscoli.

"’The hell have you been."

Abbandona il fucile al fondo delle scale e gli si accoscia davanti per ingoiarsene l’attenzione fragile, seduto sui talloni scalzi, coi jeans infilati di fretta e la tshirt sgualcita ancora impregnata di sonno. Nina dorme da qualche parte, al piano di sopra, stremata dalle lacrime. Marshall tira su dal naso rumorosamente, strizzando un occhio nella contrazione sfastidiata, incerta, dello zigomo affilato; come se la faccia di suo fratello mandasse barbagli di una luce insostenibile.

“Marsh. Hey.“

Mitchell digrigna i denti e gli molla uno schiaffo ruvido, che lo costringe a sbattere le ciglia e sgranare le palpebre per rimetterne a fuoco l’apprensione nervosa. Scolla una mano da terra e se ne strofina il dorso contro il muso ispido: nei suoi vestiti è intessuto un odore rancido di bile che strozza le budella di Mitchell e gli spinge su per la gola il contenuto nullo del proprio stomaco. Lo tiene giù a fatica, arpionando la mandibola lenta del fratello con cinque dita spesse. Marshall scrolla confusamente la testa, sfuggendo alla morsa dei polpastrelli callosi per accennare a rimettersi in piedi; i muscoli intorpiditi gli si tendono nella carne come corde, ma cedono rovinosamente nell’arco di un sussulto scomposto.
"I think I just did s'mthin’."
Mitchell scivola sulle ginocchia con un tonfo pesante di ossa e legno, allungando le mani per serrare le tempie del fratello nel palmo spazioso e raccogliere lo smarrimento dei suoi occhi vuoti, la consistenza sporca e umidiccia dei capelli bruni stravolti.
"Everythin’ he did to her … Every. Fucking. Thing."
Marshall si confessa lentamente, accalcando un mormorio sconnesso dietro l’altro.
"… I did it back to him."

– quello che sente infila sotto la pelle d’oca di Mitchell una disperazione fonda, inchiodandogli la nausea sotto lo sterno e, nelle nocche, il desiderio di colpire la smorfia disorientata di Marshall fino a spappolargliela.

"I told you to fucken’ leave it. I- …“
"… I know."
Mitchell lo rimette in piedi, infilandogli la testa sotto un braccio per trascinarlo verso il corridoio.
"Ti devi fare una doccia."


… Domare un essere umano è un’esperienza enorme.