venerdì, novembre 29

Another girl, another planet.

29 Novembre 2515,
Bullfinch (Timisoara).
Interno notte.


C’è un odore d’incenso e umori stucchevole, a impregnare la piccola mansarda del Golden Steer; le luci dondolanti della main street hanno smesso di ballare dietro i vetri appannati dell’unica finestra. Marshall si sbroglia tra gorghi di lenzuola umide, schioccando il palmo d’una mano sulla nuca sudata, mentre butta le gambe oltre l’orlo del letto e si trascina a sedere. Le assi del pavimento sono ruvide e scheggiate sotto le piante dei piedi scalzi, le spalle troppo pesanti perché riesca a sostenersi senza spalmare gli avambracci sulle cosce.

"Dove vai?"

La voce di Suzie scivola, ovattata, nel fruscio delle coperte. Marshall la sente muoversi piano, ridistribuendo dolcemente i dossi turgidi e le depressioni del materasso sfondato. Non si volta, stiracchiando la schiena nuda per arrivare a sfilare i pantaloni dallo schienale della sedia. La punta di cinque dita morbide, ancora accaldate, gli spiana le vertebre e risale fino all’attaccatura dei capelli, immergendosi fra le ciocche brune per rivoltargliele sul cranio. È una cosa che odia, gli manda un brivido giù per la nuca e innesca uno scrollone svogliato nelle spalle larghe, lucenti di sudore e intrigate di muscoli snelli.

"Non sono venuto per parlare."

"… Sei venuto per scopare."

Non è una domanda, nemmeno una recriminazione; la voce di Suzie si squaglia morbida, sorniona, contro il profilo dell’orecchio cui ha accostato le labbra bollenti. Gli lascia un bacio sopra il lobo e si ritrae, con un guizzo argentino e flessuoso, sprofondando dentro il cuscino.

"È tardi, resta a dormire."

Marshall raspa le tasche dei pantaloni umidicci, districandone a fatica un pacchetto ammaccato di sigarette. Ne sfila una coi denti, gettandosi il resto dietro le spalle.

"C’è troppo da fare."

Si fa dondolare in bocca la sigaretta, picchiettando la base spugnosa del filtro con la punta della lingua, e spazza le ombre spigolose affastellate per la stanza con un’occhiata irrequieta. Suzie si muove, dietro di lui, assestandosi sul fianco per inseguire la trama di muscoli, ossa e cicatrici spalmate sopra e dentro la pelle della sua schiena. Marshall ne sente bruciare gli occhi contro la spalla sinistra, lungo il profilo della nuca cinta dalle piastrine militari.

"Jeez, Chino. – c’è un tale affetto stizzito, in quel solo nomignolo, da spegnergli un brivido giù per la schiena. – … Non ti fermi mai un attimo a respirare, non ti fermi. A dirmi come sta Nina, e Mitch, e la bambina."

Le dita spesse di Marshall quasi spezzano la cicca di netto.

"Shit, stanno bene. Come vuoi che stiano."

Deglutisce, scorrendo il marchio della Black Mamba con occhi chiari in cui la luce si rompe, rimescolandosi al lume dell’unico abat-jour sapientemente deposto accanto al letto.

"… Stanno benone."

"E tu come stai?"

La domanda lo fa torcere d’impeto, i denti digrignati sulla sigaretta spenta. Suzie lo squadra dal basso, abbandonata dolcemente fra le pieghe intrigate del lenzuolo, con la cicca fumante appuntata a un angolo del sorriso languido, scettico; quasi canzonatorio.

"Screw you."

Marshall sputa via il filtro umido della Black Mamba, ribaltandosi del tutto per tornare a conquistarsi la morbidezza cigolante del materasso e le curve compatte della ragazza minuta che ci ha lasciato sopra.

Le monta addosso e non si ferma un attimo. Neanche per respirare.

giovedì, novembre 28

Nobody knows my name, but everybody calls me.

27 Novembre 2515,
Bullfinch (Almost Home).
Interno notte.


Marshall è piegato in due sulle ginocchia. Una mano aggrappata al coperchio sollevato della tazza, l’altra spalmata sul pavimento. Annaspa, smaltendo gli strascichi del conato che gli ha fatto rigettare il residuo scarso, slavaticcio e acre dell’ultima razione ingerita.

"Shit."

Raschia la gola e sputa due, tre, quattro volte; senza riuscire a svuotarsi la testa dalla nausea liquida in cui galleggia il cervello. I muscoli tremano, scossi da spasmi contratti e incostanti che affilano il bordo delle scapole incastonate lungo la curva della schiena nuda. Serra le palpebre, ma l’ondeggiare sfocato di tratti di pelle e spigoli d’ossa torna a rivoltargli lo stomaco come un guanto, al contempo strizzandone i lombi dentro una morsa di dita calde e invisibili. Inspira e deglutisce a fondo. Cerca nel bianco limaccioso dei succhi grastrici gli occhi di Cortes, il ronzio che gli scroscia nelle orecchie si affila lentamente sulla frequenza della sua voce. Tu ci servi dio solo sa quanto e il tuo unico compito è ricucirmi e ributtarmi nel mattatoio ancora e ancora e ancora finché non mi dissanguano e non potrai più aggiustarmi. Tu ci servi dio solo sa quanto e il tuo unico compito è ricucirmi e ributtarmi nel mattatoio ancora e ancora e ancora finché non mi dissanguano e non potrai più aggiustarmi. Tu ci servi dio solo sa quanto. Ancora e ancora e ancora.

"... Shit."

Rantola una risata rotta, piegando la fronte sudata contro il braccio scoperto – ce la sfrega di traverso, incastonando la bocca lucida di umori amari nell'incavo del gomito. Ricucirmi e ributtarmi nel mattatoio ancora e ancora e ancora. E ancora. Il battito cardiaco gli martella fra le tempie. Scolla precipitosamente la mano da terra per snudare, torcendo la pelle, le tacche nere tatuate lungo il corso interno dell'avambraccio. Le fissa, dietro il velo umido del malessere, finché lo sguardo non si sdoppia rimescolando pelle e inchiostro. Il singhiozzo soffocato che gli nasce dentro al petto istiga un nuovo conato violento, ma non ha più niente da vomitare. Finché non mi dissanguano e non potrai più aggiustarmi. Marshall si trascina in piedi, fino al lavello su cui chinarsi e sputare. Sciacqua la faccia con l'acqua fredda, sfregando l'avambraccio unto di bile e saliva sotto il getto. Tira su il mento, incontrando il tumulto limpido degli occhi arrossati, umidi, che lo fissano attraverso lo specchio – non sa perché, ma il suo riflesso gli rimanda un sorriso strafottente.

Il cuore è come un tempio, stronzo.

mercoledì, novembre 20

The straightest way ...

18 Novembre 2515,
Bullfinch (Amarillo).
Interno notte.


Marshall è sdraiato sulla schiena, le spalle scollate dal legno del tavolo per inseguire idealmente la linea protesa delle braccia allungate sopra la testa. Rigira fra le dita spesse il calcio di una Shell Dhole dalla tempra ossidata, che ha l’aria d’essere più vecchia di lui. Ne esamina il profilo massiccio sottosopra, con un occhio strizzato e la testa brunastra rovesciata indietro a snudare l’arco teso del collo. Una gamba piegata, la suola dello scarpone incastrata sull’orlo del tavolo, e l’altra abbandonata verso il pavimento ne fanno un aggraziato ritratto di compostezza ubriaca.
Mitchell è biondiccio, dimostra forse un paio d’anni in più. Avrebbe bisogno di radersi, anche lui, ma le linee del suo viso si snodano con una dolcezza sconosciuta al muso aspro del fratello. Siede allo stesso tavolo, ridotto a un cimitero di birre vuote, che il minore dei Lee ha colonizzato con la schiena larga; spalmato sullo schienale in piena grazia di Dio, con un sorriso stretto fra le labbra e gli occhi chiari, gli occhi di famiglia, che pungolano il fianco altrui.

"Non te l’ho data mica per sparare alle tende, ah?"

"Va' a farti fottere... ’stammerda mi sembra un ferro vecchio, sei sicuro che non mi scoppia in faccia?"

Trova il nome graffiato sotto il calcio, lo spolvera con un soffio e l’avvicina alla cima del naso per spalmarne la linea spezzata contro il culo spigoloso dell’arma – se l’infila quasi in un occhio quando le nocche di Mitchell, affondate brutalmente nella coscia, gli scaricano un sussulto di sorpresa e di dolore lungo i muscoli.

"Fuck... Fuck."

Marshall tenta di rivoltarsi con un colpo di reni frenetico, alla maniera dei cani rabbiosi, ma è troppo innaffiato di Gran Riserva. La pistola crolla sul tavolo con un tonfo, coronato dallo schianto di bottiglie vuote rovesciate in ogni direzione, e Mitchell è più svelto a tirarsi in piedi, barcollante, buttandosi in avanti a peso morto per aprirgli una mano sullo sterno e caricare l’altra contro il suo muso – gli liscia la mascella di misura, schiantando le nocche sul legno con un’imprecazione cruda. Marshall scoppia a ridere, sganciando la suola dello scarpone dal bordo del tavolo per sbatterla sulle costole altrui con un ululato.

"Shit... Gawd ..."

Il maggiore dei Lee tossisce, scansato dalla violenza dell’impatto, incespicando a ritroso e concedendo a Marshall il margine di spazio per issarsi a sedere. Annaspando fra una risata e un ringhio bellicoso, si spinge a terra e accusa, nell’immediato, il cedimento molle delle ginocchia. Gli occhi da lupo, stretti nella feritoia delle palpebre, schizzano in faccia al fratello intercettandone il ghigno sghembo. Il guizzo brutale di muscoli col quale assesta la postura traballante non è svelto abbastanza da evitare che Mitchell l’agguanti per il bavero della canotta, esplodendogli sul grugno una testata carica d’affetto.

Marshall sente la scatola cranica rimbombare di lampi, il sapore ferroso del fiotto grondato sulle labbra, ed allunga le nocche in cerca del muso di Mitchell mentre il mondo gli si capovolge attorno.

Nina li trova per terra, a rotolarsi fra i cocci di bottiglia e il pantano appiccicaticcio dei fondi di birra rovesciati.

Ridono come bambini.



[Bullfinch, 18 Nov. 2515]