sabato, febbraio 22

Talkin’ ’bout a revolution.

23 Febbraio 2516,
Bullfinch (Amarillo).
Interno giorno.


Justice fa ciondolare le gambe troppo magre dallo sgabello troppo alto, dondolando la testa bionda contro una mano aperta. Affonda l’indice minuto nel barattolo del miele e lo rigira a mezz’aria per vederne colare la ragnatela d’ambra liquida.

"… Perché non me lo ha detto lui?"

Sbircia di sottecchi suo padre, seduto sullo sgabello di fronte al proprio con le spalle enormi ripiegate e i gomiti nudi appoggiati contro le cosce. Lui le sorride, soffiando in alto per scostare dalla fronte qualche ciuffo della frangia biondiccia (ci prova anche lei, ma ottiene solo d’incrociare fastidiosamente gli occhi nel tentativo di sbirciarsi i capelli).

"Voleva parlarti di persona invece che via cortex."

Mitchell Lee si stringe nelle spalle; la bambina torna a far sgusciare gli occhi limpidi contro le bave di miele che le si srotolano attorno al polpastrello.

"Ah. – tira su dal naso come ha visto fare suo zio centinaia di volte; come potesse catturare sulla pelle di suo padre l’odore della menzogna. – … E allora perché me lo dici tu?"

Mitchell allunga una mano contro il bordo del barattolo e glielo sfila da sotto le dita, affondandoci il proprio indice spesso, grande sei volte quello di Justice, per spalmarselo tra le labbra fradicio di miele. Ne succhia via la patina dolce con un ghigno soddisfatto, schiaffeggiando lo sguardo sospettoso di sua figlia col bagliore vispo di occhi trasparenti.

"Per rovinargli la sorpresa."

Justice Lee, quasi sei anni, sospira e allunga un calcetto indolente contro il ginocchio dell’uomo, seppellendo un sorriso dietro la smorfia di sufficienza che ha imparato imitando zia Nina allo specchio.

"Jeez, pa’, sei proprio un bambino."

Dopotutto, pensa mentre s’infila in bocca l’indice coperto di miele, Hope Lee non è un brutto nome.

venerdì, febbraio 14

"This beast that you’re after will eat you alive."

29 Aprile 2505,
Bullfinch (Amarillo).
Interno giorno.


Mitchell scende le scale cautamente, col fucile a pesargli fra le dita per il rumore di mobilia rivoltata che l’ha trascinato giù dal letto. C’è un’umidità penetrante a far scricchiolare i gradini di legno, come ogni mattino di primavera sul dorso delle St Louis Mountains, e i primi raggi bianchi filtrati tra le fronde, nella risalita del sole dagli abissi della notte, ingoiano con pazienza inesorabile la facciata della baita incastonata nei boschi, stendendo leccate di luce ridosso al pavimento del salotto. Per arrivare al divano, Marshall ha rovesciato due sedie e ruotato l’asse del largo tavolo da pranzo. Seduto scompostamente sul parquet di assi larghe, fissa la meta come se potesse convincerla a farglisi incontro spontaneamente. Sulle mani spianate contro il pavimento ha del sangue, le nocche lacerate e contuse, ma non è una novità più di quanto lo sia la smorfia di disorientamento perso che Mitchell gli scova sul muso.

"Fuck …"

La prima volta che ha beccato Marshall a stonarsi con il tranquillante per cavalli si è fatto una risata. L’ha chiamato “Ponyboy“ per una settimana. Una decina di giorni fa neanche la maniera offuscata in cui torce il collo e lo mette faticosamente a fuoco, quasi senza riconoscerlo, l’avrebbe allarmato granché; ma non avrebbe visto i buchi lungo le sue braccia, né riconosciuto il marchio della switch nel fondale torbido dei suoi occhi annacquati.

"’The hell have you been."

Abbandona il fucile al fondo delle scale e gli si accoscia davanti per ingoiarsene l’attenzione fragile, seduto sui talloni scalzi, coi jeans infilati di fretta e la tshirt sgualcita ancora impregnata di sonno. Nina dorme da qualche parte, al piano di sopra, stremata dalle lacrime. Marshall tira su dal naso rumorosamente, strizzando un occhio nella contrazione sfastidiata, incerta, dello zigomo affilato; come se la faccia di suo fratello mandasse barbagli di una luce insostenibile.

"Marsh. Hey."

Mitchell digrigna i denti e gli molla uno schiaffo ruvido, che lo costringe a sbattere le ciglia e sgranare le palpebre per rimetterne a fuoco l’apprensione nervosa. Scolla una mano da terra e se ne strofina il dorso contro il muso ispido: nei suoi vestiti è intessuto un odore rancido di bile che strozza le budella di Mitchell e gli spinge su per la gola il contenuto nullo del proprio stomaco. Lo tiene giù a fatica, arpionando la mandibola lenta del fratello con cinque dita spesse. Marshall scrolla confusamente la testa, sfuggendo alla morsa dei polpastrelli callosi per accennare a rimettersi in piedi; i muscoli intorpiditi gli si tendono nella carne come corde, ma cedono rovinosamente nell’arco di un sussulto scomposto.

"I think I just-…" – il soffio che gli cola di bocca è un filo aggrovigliato di voce bassa.

Mitchell scivola sulle ginocchia con un tonfo pesante di ossa e legno, allungando le mani per serrare le tempie del fratello nel palmo spazioso e raccogliere lo smarrimento dei suoi occhi vuoti, la consistenza sporca e umidiccia dei capelli bruni stravolti. Marshall si confessa lentamente, accalcando un mormorio sconnesso dietro l’altro – quello che sente infila sotto la pelle d’oca di Mitchell una disperazione fonda, inchiodandogli la nausea sotto lo sterno e, nelle nocche, il desiderio di colpire la smorfia disorientata di Marshall fino a spappolargliela.

"I told you to fucking leave it. I- …"

"… I know."

"Shit. – gli molla la testa di getto, allungando le dita contro la nuca soffice e bionda per rasparsi la cute fino a graffiarla, – Cristosantissimo, spiegami. Pensi- … Fuck, pensi che questo sia quello che vorrebbe, quello che dovevi fare, quello che- … Pensi che questo la farebbe stare meglio, è questa la merda che hai in testa?"

Mitchell parla troppo velocemente, chiudendo in gola a fatica la tendenza della voce ad incrinarsi. Non sa nemmeno se la pressione che gli si è gonfiata nel petto, comprimendogli dolorosamente i polmoni, sia l’urgenza di piangere oppure una risata. Marshall appende un’occhiata sfocata alle sue labbra, vincendo a stento la nausea e le nerbate di sconforto che gli occhi e la voce di suo fratello gli calcano nei muscoli sfatti. Scrolla la testa e deglutisce un mattone di saliva, senza frenare l’arricciata brutale delle labbra lungo il muso scosceso.

"Fa stare meglio me."

… Ma l’occhiata pregna di scetticismo limpido che Mitchell gli sbatte in faccia lo spoglia di vestiti e carne, rendendogli un brivido di freddo e l’impressione di avere ancora dieci anni. Si lascia afferrare e rimettere in piedi col salotto che vortica, squagliando l’alternanza di ombre e luce in un caleidoscopio nauseante, mentre il fratello maggiore ne raccoglie i cocci, infilandogli la testa sotto il braccio per trascinarselo verso il corridoio.

"Ti devi fare una doccia."

È solo che a dieci anni non conosceva un terrore così fondo.





mercoledì, febbraio 12

Don’t it always seem to go that you don’t know what you’ve got ’til it’s gone?

12 Febbraio 2516,
Almost Home / Bullfinch.
Interno notte.


Mitchell si rivolta nel letto, strappato alla cavalcata sul cuore pulsante, a forma di toro, di Bullfinch dal trillo insistente del cortex abbandonato sul pavimento. Grugnisce un’imprecazione impastata e rovescia le spalle nude, compatte di muscoli, oltre il bordo del materasso per allungare un braccio fino a terra. Con un solo occhio sbircia il mittente della chiamata, due rughe d'espressione congestionate alla radice del naso.

"God, Marsh … Sono le fottute tre del mattino."

Dall’altro capo del ’Verse non arriva nessuna risposta, ma fruscii confusi di un corpo riposizionato contro il pavimento, e lo sciabordio indistinguibile del contenuto di una bottiglia che innaffia gli spasmi del pomo d’Adamo.

"Fuck, are you drunk?"
"I’m just kind of … Havin’ a little dialogue with gravity."
"You're fucken’ drunk."
"Mi ha messo dei topi morti nel letto."
"Go to bed, dickhead."
"… -no, sul serio."

Mitchell rovescia nel comunicatore una risata impastata di sonno.

"Jeez, e ti ama o ti vuole crepato?"
"Uhh, dunno yet."
"Chrissake, topi morti …"
"It’s okay. Posso dormire nel letto di Bones."
"Who?"
"… Nessuno, un coglione che ci ha mollato."

Spalmato sul pavimento, le spalle larghe addossate alla carcassa della propria branda spogliata di lenzuola e privata del materasso, Marshall fissa il letto vuoto di Cristobal fino a farsi bruciare gli occhi per la necessità di battere le ciglia. Sprofonda nel buio pulsante custodito sul retro delle palpebre, lisciando il collo di vetro della bottiglia col pollice e cercando tastoni il cortex pad rotolato fra le proprie gambe.

"You okay?" – nella voce arrochita di Mitchell circola una nota di apprensione ruvida.
"Totally."
"Non fare lo stronzo."
"Non fare la baby sitter."
"Fuck you."
“Fuck you."
"Yeah, fine. Io torno a dormire, perché non- …"
"Fuck the fuck off."
"… Jeez."

Il minore dei Lee s’ingoia il sospiro esasperato del fratello con un ghigno ebbro di appagamento infantile, tornando cautamente a schiudere le palpebre in faccia alla luce fioca ed abbagliante del neon a soffitto.

"Hey, Mitch?"
"Mmh?"
"… I’m gonna be a dad."
"Wha- …"

'Click', Marshall interrompe la chiamata e lancia il cortex contro il muro con una parabola molle, spiandolo ruzzolare sul pavimento mentre rovescia la testa contro il bordo di ferro del letto e sghignazza, biascicando sulla bocca della bottiglia la strofa di una vecchia canzone.

"They paved paradise and put up a parking lot."

domenica, febbraio 9

El libro de los seres imaginarios.

10 Febbraio 2516,
Hall Point (Royal Suite).
Interno notte.


Infilare la carta magnetica nella bocca del pannello elettronico è un attimo, una volta trovato il verso. Spintonarsi dentro la suite regale come catapultarsi nella bocca di una dimensione sconosciuta. C’è un odore buono a impregnare l’aria, un tepore d’estate che non ha niente a che fare con le solide pareti di metallo dello skyplex, né con l’inverno tossico e ingrato di Sunset Tower. Marshall fiuta l’aria come un animale scaricato in territorio sconosciuto, Moloko si trascina con entusiasmo contro i muri composti da minuscoli tasselli di mosaico elettronico, che tracciano sulle pareti della royal suite una fedele, mutevole riproduzione dello spazio cosmico al di fuori della stazione – quando Cortes li urta ci lascia su l’impronta del suo corpo come un alone rosso, lento a sbiadire, quasi che il ’Verse si imbarazzasse di toccarla.

"I muri sprizzano sangue, Marshall Lee."

"… È il tuo cervello che sprizza sangue."

Marshall si trascina una mano contro il muso ispido, sfilando con l’altra il libro tascabile, distrutto, incastrato nella tasca posteriore dei pantaloni. Ne sbircia la copertina, arricciando le labbra, e poi lo getta sul letto più largo che abbia mai visto in vita sua.

"Jesus Christ, ci si potrebbe domare un cavallo." - mormora rivoltando gli occhi slavati, in cui la diffidenza sta cedendo vertiginosamente all’assedio della stupefazione, sul riflesso di stelle ardenti fra le scapole di Moloko.

Cortes arraffa il tech reader di Elian e lo lancia per aria, accosciandosi davanti al borsone rimasto semi aperto in un angolo del pavimento. Sul comodino Marshall adocchia l’holodeck acceso, ma piegato in due; se lo trascina sulle gambe mentre crolla a sedere sul bordo del materasso.

"Secondo te qual’è la password."

"Io come faccio a saperlo. Prova con Lee."

Moloko tira fuori sistematicamente i vestiti di Elian e li sparpaglia sul pavimento, esaminando biancheria, gonne e maglioni dai colori sgargianti come se si aspettasse di trovare un lanciagranate fra le cuciture. Lee digita 'Lee', ma l’holodeck non reagisce. Allora digita 'Shangri-La', poi 'Koroleva', poi 'Korolevamerda', poi 'Sono una grande stronza'. Cortes lo sente sghignazzare e gli tira contro il muso un paio di calze nel cui groviglio il ’buller si districa a fatica, annaspando imprecazioni, come se l’avessero avviluppato i tentacoli di una piovra gigante. Moloko gli ride in faccia, piegata sui calcagni come un naufrago nel mare di indumenti spiegazzati, con occhi lucidi e febbricitanti.

"Fuck you, sweez." – l’holodeck di Elian finisce abbandonato fra le coperte, e sempre fra le coperte le dita spesse e avide di Marshall trovano un telecomando.

"Occàzzo, Maria Vergine."

Moloko si è tirata in piedi, fissa l’holo-tv allungando le dita attraverso le immagini tridimensionali che le inghiottono i polsi come la superficie traslucida di una pozza d’acqua. Marshall vacilla contro il bordo del letto, spazzandosi i capelli bruni con il passaggio brusco di una mano. Barcolla incontro al frigobar scalpitando, i muscoli aspri in rivolta e lo sguardo che stenta a scollarsi dalle sagome umane che si attorcigliano intorno a Cortes, rincorrendosi su un palcoscenico invisibile. Si versa in gola, alla goccia, il contenuto di una bottiglietta di whiskey con una smorfia appagata tesa contro i lati del viso. Il secondo drink la ’leafer glielo ruba dalle mani con un sorriso ruffiano, tornando a immergere il caschetto sfatto tra gli ologrammi. Lee ne è un po’ affascinato, un po’ infastidito. Voltandosi verso il letto, con le proiezioni relegate a margine dell’arco visivo, gli sembra di vedere l’ombra di Elian che si sfalda e si ricostruisce contro l’orlo estremo dei propri occhi; come qualcuno gliel’avesse cucita dentro alle pupille, se la trascina fra le pieghe impercettibili del lenzuolo stirato e in ogni buco nero fra le stelle mobili inchiodate alle pareti. Non ha lineamenti, ma le guance rosse come bucce d’arancia e un sorriso invisibile, dolce come il burro appena fatto.

"… -dici per otto, ottocentosessanta. – la voce di Moloko gli si schianta nel cervello a ondate mentre si fruga le tasche in cerca del tubetto di nootropam. – Mordecai Adler, medico di bordo, ha detto che sei un incom-pe-tente."

Deve scandire l’ultima parola, per essere certa di pronunciarla bene, ma Marshall nemmeno la gratifica con un’occhiata. Rovescia sul palmo un paio di pasticche e se le infila in gola nervosamente, smorfieggiando sulla patina zuccherina che il farmaco gli incolla alla lingua; le manda giù con un sorso di rum.

"Mordecai who?" – grugnisce tardi, scrollando la testa come un cane bagnato.

"Mordecai Adler, medico di bordo. Mi insegnava la matematica e ricuciva le nostre ossa rotte prima di te."

"Uh. – Lee tira su dal naso adunco, strofinandosi un avambraccio sugli occhi e un ghigno sulle labbra, – … Incompetente sua madre."

Cortes gli rovescia in faccia un’occhiata carica di diffidenza brulla. Poi scioglie un sorriso incline all’indulgenza e si volta per inseguire con gli occhi le piroette di una balena olografica.

"Scopiamo."

"… Aspetta."

Passano una ventina di secondi, poi le chimere tridimensionali che attraversano la stanza e gli occhi della ’leafer si sfaldano, risucchiate dal ‘crack‘ rumoroso della centralina schiacciata sotto lo scarpone di Marshall, che trascina in faccia a Moloko due occhi assurdamente limpidi, stretti nella morsa degli zigomi contratti agli antipodi di un sorriso da canaglia.

"Scopiamo."





« pesca la carta magnetica della sua stanza - una suite regale a una porta di distanza da quella di Huck Haggerty -, e la porge a Marshall. […]

martedì, febbraio 4

We got to keep it burning on the road to Zion.

4 Febbraio 2516,
Almost Home (Sickbay).
Interno notte.


L’Almost Home torna da Boyd’s Moon come il carico fresco di una macelleria. La sickbay ha soltanto due brande, ma Schmidt è stato steso sul tavolo operatorio per tenerlo agganciato al polmone d’acciaio dopo il collasso del suo. Marshall ha impiegato l’attesa tirando sangue a tutti i membri sani dell’equipaggio; riempiendo sacche da affastellare ordinatamente in una cella frigorifera, come tranci di manzo di Bullfinch sul banco del mercato, e imbottendosi di nootropam per dormire molto in attesa delle lunghe ore spese ad intingere le dita nel sangue dei feriti. Assicura la sacca di sangue appesa sulla gruccia che irriga le vene di Schmidt con uno scrollone, poi trascina rumorosamente una sedia fino alla branda di Volkov: il Capitano è nero ed enorme com’è nera ed enorme la voragine slabbrata che ha preso il posto del suo stomaco. Scrostargli di dosso il flak jacket è stato un lavoro di fatica, come scuoiare un toro gigantesco. Marshall apre una mano e sistema il grumo di garze insanguinate che ricaccia indietro l’emorragia del korolevita, sollevandole per far sgusciare un’occhiata attraverso i lembi di pelle aperta: c’è qualcosa che lo fa sentire un voyeur e un pervertito nello sbirciare a questo modo le interiora dell’ufficiale; come se tutto quel che è custodito entro la guaina di pelle nera di Volkov fosse destinato a rimanere segreto, inviolabile nei secoli come certi misteri della fede.

"Shit, devi smetterla di girarti come un cane che si morde la coda."

Le ferite di Moloko si comporta come se nemmeno le vedesse – del resto, anche lei si comporta come se non le avesse.

"Fuck you, Marshall Lee, smettila di toccare il Capitano." – Cortès annaspa e si rigira, sudando, fra le lenzuola umide e i bendaggi che Edwards le ha stretto attorno alle gambe.

"Non lo sto toccando."

Marshall è troppo assorbito nella manovra con cui sostituisce l’impacco di garze fradicie per darle retta sul serio, come un paio di settimane fa era troppo assorbito dai dossi e dalle valli della sua carne compatta, dal nodo di muscoli in cui si arrampicavano l’uno dentro l’altra rotolando tra le salme dell’obitorio di Sunset Tower come due ragazzini, per raccontarle i segreti schiacciati fra i battiti del proprio cuore.

"Ascoltami bene, Marshall Lee, gli devi dare il mio sangue." – è costretto ad allungare una mano aperta contro il suo petto per sbatterla giù con violenza quando la ’Leafer schizza a sedere sulla branda.

"Fuck, Còrtes, non ora."

Moloko gli sorride con la bocca piena di rancore e di diffidenza, frustando il soffitto di lamiera con gli occhi verdi e il caschetto stinto spalmato sulle guance sudate in fili neri e biondi, come la criniera di certi cavalli pezzati.

"Devi prosciugare tutto il mio sangue per darlo al Capitano, e se non basta devi dargli anche il sangue di Edwards e quello di Schmidt."

"I can’t. – Marshall si scolla dal palato un grugnito distratto, voltandole le spalle per trovare la cannula da trasfusione. – … Adesso sta’ zitta."

"Why not."

Non vede i suoi occhi spalancati nel senso di claustrofobia che l’ha inghiottita, all’improvviso, con fauci d’impotenza; è troppo impegnato a disinfettarsi la lingua di pelle tirata fra il gomito sinistro e il polso. Morde distrattamente la lingua, schiacciata e ripiegata sotto i molari, mentre insinua lo spesso ago di plastica sotto la pelle nera di Volkov e dentro la lunga vena scossa da contrazioni deboli.

"Il vostro sangue è sbagliato."

La canotta sbrindellata gli risparmia il fastidio di tenere su la manica mentre si aiuta con i denti a serrare il laccio emostatico contro la carne aspra, indurita da fasci di muscoli irrequieti affilati contro la pelle. Deglutisce, con un mattone di saliva e fiato, il senso di fastidio che le vene strozzate gli spingono sotto pelle a ogni spasmo del cuore. Trovarsi con l’ago la più carica di sangue è un rituale connaturato, un gesto meccanico assimilato dal corpo a una maniera indelebile che rende ridicoli tutti gli anni spesi a dimenticare come si fa. Sforzati di scordare come si nuota. Sforzati di scordare come si cammina. Sforzati di scordare come si respira, stronzo.

"… Negro di merda."

Marshall Lee crolla sulla sedia, ci spalma la schiena larga con una smorfia indolente, allungando la suola dello scarpone contro il bordo di ferro della branda mentre un filo rosso si srotola dal proprio braccio a quello di Volkov. Il cigolio delle molle d’acciaio tormentate dal dormiveglia irrequieto di Cortès rimbomba dentro ai sibili regolari del polmone artificiale che tiene in vita il respiro di Schmidt, pallido e incosciente come una mummia di granito. Svuotandosi di sangue, il medico di Bullfinch rovescia la testa bruna per ribaltare lo sguardo incontro alla lamiera del soffitto. Ingoia un fiotto corposo di nausea da nootropam e respira dal naso sferzate d'aria violente, incarcerando i muscoli nell'attesa ed appendendo alle piastrine militari l'impazienza delle dita spesse.

Il suo lavoro da boia è di tenerli tutti impiccati per il collo al cappio della vita.