martedì, febbraio 4

We got to keep it burning on the road to Zion.

4 Febbraio 2516,
Almost Home (Sickbay).
Interno notte.


L’Almost Home torna da Boyd’s Moon come il carico fresco di una macelleria. La sickbay ha soltanto due brande, ma Schmidt è stato steso sul tavolo operatorio per tenerlo agganciato al polmone d’acciaio dopo il collasso del suo. Marshall ha impiegato l’attesa tirando sangue a tutti i membri sani dell’equipaggio; riempiendo sacche da affastellare ordinatamente in una cella frigorifera, come tranci di manzo di Bullfinch sul banco del mercato, e imbottendosi di nootropam per dormire molto in attesa delle lunghe ore spese ad intingere le dita nel sangue dei feriti. Assicura la sacca di sangue appesa sulla gruccia che irriga le vene di Schmidt con uno scrollone, poi trascina rumorosamente una sedia fino alla branda di Volkov: il Capitano è nero ed enorme com’è nera ed enorme la voragine slabbrata che ha preso il posto del suo stomaco. Scrostargli di dosso il flak jacket è stato un lavoro di fatica, come scuoiare un toro gigantesco. Marshall apre una mano e sistema il grumo di garze insanguinate che ricaccia indietro l’emorragia del korolevita, sollevandole per far sgusciare un’occhiata attraverso i lembi di pelle aperta: c’è qualcosa che lo fa sentire un voyeur e un pervertito nello sbirciare a questo modo le interiora dell’ufficiale; come se tutto quel che è custodito entro la guaina di pelle nera di Volkov fosse destinato a rimanere segreto, inviolabile nei secoli come certi misteri della fede.

"Shit, devi smetterla di girarti come un cane che si morde la coda."

Le ferite di Moloko si comporta come se nemmeno le vedesse – del resto, anche lei si comporta come se non le avesse.

"Fuck you, Marshall Lee, smettila di toccare il Capitano." – Cortès annaspa e si rigira, sudando, fra le lenzuola umide e i bendaggi che Edwards le ha stretto attorno alle gambe.

"Non lo sto toccando."

Marshall è troppo assorbito nella manovra con cui sostituisce l’impacco di garze fradicie per darle retta sul serio, come un paio di settimane fa era troppo assorbito dai dossi e dalle valli della sua carne compatta, dal nodo di muscoli in cui si arrampicavano l’uno dentro l’altra rotolando tra le salme dell’obitorio di Sunset Tower come due ragazzini, per raccontarle i segreti schiacciati fra i battiti del proprio cuore.

"Ascoltami bene, Marshall Lee, gli devi dare il mio sangue." – è costretto ad allungare una mano aperta contro il suo petto per sbatterla giù con violenza quando la ’Leafer schizza a sedere sulla branda.

"Fuck, Còrtes, non ora."

Moloko gli sorride con la bocca piena di rancore e di diffidenza, frustando il soffitto di lamiera con gli occhi verdi e il caschetto stinto spalmato sulle guance sudate in fili neri e biondi, come la criniera di certi cavalli pezzati.

"Devi prosciugare tutto il mio sangue per darlo al Capitano, e se non basta devi dargli anche il sangue di Edwards e quello di Schmidt."

"I can’t. – Marshall si scolla dal palato un grugnito distratto, voltandole le spalle per trovare la cannula da trasfusione. – … Adesso sta’ zitta."

"Why not."

Non vede i suoi occhi spalancati nel senso di claustrofobia che l’ha inghiottita, all’improvviso, con fauci d’impotenza; è troppo impegnato a disinfettarsi la lingua di pelle tirata fra il gomito sinistro e il polso. Morde distrattamente la lingua, schiacciata e ripiegata sotto i molari, mentre insinua lo spesso ago di plastica sotto la pelle nera di Volkov e dentro la lunga vena scossa da contrazioni deboli.

"Il vostro sangue è sbagliato."

La canotta sbrindellata gli risparmia il fastidio di tenere su la manica mentre si aiuta con i denti a serrare il laccio emostatico contro la carne aspra, indurita da fasci di muscoli irrequieti affilati contro la pelle. Deglutisce, con un mattone di saliva e fiato, il senso di fastidio che le vene strozzate gli spingono sotto pelle a ogni spasmo del cuore. Trovarsi con l’ago la più carica di sangue è un rituale connaturato, un gesto meccanico assimilato dal corpo a una maniera indelebile che rende ridicoli tutti gli anni spesi a dimenticare come si fa. Sforzati di scordare come si nuota. Sforzati di scordare come si cammina. Sforzati di scordare come si respira, stronzo.

"… Negro di merda."

Marshall Lee crolla sulla sedia, ci spalma la schiena larga con una smorfia indolente, allungando la suola dello scarpone contro il bordo di ferro della branda mentre un filo rosso si srotola dal proprio braccio a quello di Volkov. Il cigolio delle molle d’acciaio tormentate dal dormiveglia irrequieto di Cortès rimbomba dentro ai sibili regolari del polmone artificiale che tiene in vita il respiro di Schmidt, pallido e incosciente come una mummia di granito. Svuotandosi di sangue, il medico di Bullfinch rovescia la testa bruna per ribaltare lo sguardo incontro alla lamiera del soffitto. Ingoia un fiotto corposo di nausea da nootropam e respira dal naso sferzate d'aria violente, incarcerando i muscoli nell'attesa ed appendendo alle piastrine militari l'impazienza delle dita spesse.

Il suo lavoro da boia è di tenerli tutti impiccati per il collo al cappio della vita.