domenica, febbraio 9

El libro de los seres imaginarios.

10 Febbraio 2516,
Hall Point (Royal Suite).
Interno notte.


Infilare la carta magnetica nella bocca del pannello elettronico è un attimo, una volta trovato il verso. Spintonarsi dentro la suite regale come catapultarsi nella bocca di una dimensione sconosciuta. C’è un odore buono a impregnare l’aria, un tepore d’estate che non ha niente a che fare con le solide pareti di metallo dello skyplex, né con l’inverno tossico e ingrato di Sunset Tower. Marshall fiuta l’aria come un animale scaricato in territorio sconosciuto, Moloko si trascina con entusiasmo contro i muri composti da minuscoli tasselli di mosaico elettronico, che tracciano sulle pareti della royal suite una fedele, mutevole riproduzione dello spazio cosmico al di fuori della stazione – quando Cortes li urta ci lascia su l’impronta del suo corpo come un alone rosso, lento a sbiadire, quasi che il ’Verse si imbarazzasse di toccarla.

"I muri sprizzano sangue, Marshall Lee."

"… È il tuo cervello che sprizza sangue."

Marshall si trascina una mano contro il muso ispido, sfilando con l’altra il libro tascabile, distrutto, incastrato nella tasca posteriore dei pantaloni. Ne sbircia la copertina, arricciando le labbra, e poi lo getta sul letto più largo che abbia mai visto in vita sua.

"Jesus Christ, ci si potrebbe domare un cavallo." - mormora rivoltando gli occhi slavati, in cui la diffidenza sta cedendo vertiginosamente all’assedio della stupefazione, sul riflesso di stelle ardenti fra le scapole di Moloko.

Cortes arraffa il tech reader di Elian e lo lancia per aria, accosciandosi davanti al borsone rimasto semi aperto in un angolo del pavimento. Sul comodino Marshall adocchia l’holodeck acceso, ma piegato in due; se lo trascina sulle gambe mentre crolla a sedere sul bordo del materasso.

"Secondo te qual’è la password."

"Io come faccio a saperlo. Prova con Lee."

Moloko tira fuori sistematicamente i vestiti di Elian e li sparpaglia sul pavimento, esaminando biancheria, gonne e maglioni dai colori sgargianti come se si aspettasse di trovare un lanciagranate fra le cuciture. Lee digita 'Lee', ma l’holodeck non reagisce. Allora digita 'Shangri-La', poi 'Koroleva', poi 'Korolevamerda', poi 'Sono una grande stronza'. Cortes lo sente sghignazzare e gli tira contro il muso un paio di calze nel cui groviglio il ’buller si districa a fatica, annaspando imprecazioni, come se l’avessero avviluppato i tentacoli di una piovra gigante. Moloko gli ride in faccia, piegata sui calcagni come un naufrago nel mare di indumenti spiegazzati, con occhi lucidi e febbricitanti.

"Fuck you, sweez." – l’holodeck di Elian finisce abbandonato fra le coperte, e sempre fra le coperte le dita spesse e avide di Marshall trovano un telecomando.

"Occàzzo, Maria Vergine."

Moloko si è tirata in piedi, fissa l’holo-tv allungando le dita attraverso le immagini tridimensionali che le inghiottono i polsi come la superficie traslucida di una pozza d’acqua. Marshall vacilla contro il bordo del letto, spazzandosi i capelli bruni con il passaggio brusco di una mano. Barcolla incontro al frigobar scalpitando, i muscoli aspri in rivolta e lo sguardo che stenta a scollarsi dalle sagome umane che si attorcigliano intorno a Cortes, rincorrendosi su un palcoscenico invisibile. Si versa in gola, alla goccia, il contenuto di una bottiglietta di whiskey con una smorfia appagata tesa contro i lati del viso. Il secondo drink la ’leafer glielo ruba dalle mani con un sorriso ruffiano, tornando a immergere il caschetto sfatto tra gli ologrammi. Lee ne è un po’ affascinato, un po’ infastidito. Voltandosi verso il letto, con le proiezioni relegate a margine dell’arco visivo, gli sembra di vedere l’ombra di Elian che si sfalda e si ricostruisce contro l’orlo estremo dei propri occhi; come qualcuno gliel’avesse cucita dentro alle pupille, se la trascina fra le pieghe impercettibili del lenzuolo stirato e in ogni buco nero fra le stelle mobili inchiodate alle pareti. Non ha lineamenti, ma le guance rosse come bucce d’arancia e un sorriso invisibile, dolce come il burro appena fatto.

"… -dici per otto, ottocentosessanta. – la voce di Moloko gli si schianta nel cervello a ondate mentre si fruga le tasche in cerca del tubetto di nootropam. – Mordecai Adler, medico di bordo, ha detto che sei un incom-pe-tente."

Deve scandire l’ultima parola, per essere certa di pronunciarla bene, ma Marshall nemmeno la gratifica con un’occhiata. Rovescia sul palmo un paio di pasticche e se le infila in gola nervosamente, smorfieggiando sulla patina zuccherina che il farmaco gli incolla alla lingua; le manda giù con un sorso di rum.

"Mordecai who?" – grugnisce tardi, scrollando la testa come un cane bagnato.

"Mordecai Adler, medico di bordo. Mi insegnava la matematica e ricuciva le nostre ossa rotte prima di te."

"Uh. – Lee tira su dal naso adunco, strofinandosi un avambraccio sugli occhi e un ghigno sulle labbra, – … Incompetente sua madre."

Cortes gli rovescia in faccia un’occhiata carica di diffidenza brulla. Poi scioglie un sorriso incline all’indulgenza e si volta per inseguire con gli occhi le piroette di una balena olografica.

"Scopiamo."

"… Aspetta."

Passano una ventina di secondi, poi le chimere tridimensionali che attraversano la stanza e gli occhi della ’leafer si sfaldano, risucchiate dal ‘crack‘ rumoroso della centralina schiacciata sotto lo scarpone di Marshall, che trascina in faccia a Moloko due occhi assurdamente limpidi, stretti nella morsa degli zigomi contratti agli antipodi di un sorriso da canaglia.

"Scopiamo."





« pesca la carta magnetica della sua stanza - una suite regale a una porta di distanza da quella di Huck Haggerty -, e la porge a Marshall. […]