venerdì, febbraio 14

"This beast that you’re after will eat you alive."

29 Aprile 2505,
Bullfinch (Amarillo).
Interno giorno.


Mitchell scende le scale cautamente, col fucile a pesargli fra le dita per il rumore di mobilia rivoltata che l’ha trascinato giù dal letto. C’è un’umidità penetrante a far scricchiolare i gradini di legno, come ogni mattino di primavera sul dorso delle St Louis Mountains, e i primi raggi bianchi filtrati tra le fronde, nella risalita del sole dagli abissi della notte, ingoiano con pazienza inesorabile la facciata della baita incastonata nei boschi, stendendo leccate di luce ridosso al pavimento del salotto. Per arrivare al divano, Marshall ha rovesciato due sedie e ruotato l’asse del largo tavolo da pranzo. Seduto scompostamente sul parquet di assi larghe, fissa la meta come se potesse convincerla a farglisi incontro spontaneamente. Sulle mani spianate contro il pavimento ha del sangue, le nocche lacerate e contuse, ma non è una novità più di quanto lo sia la smorfia di disorientamento perso che Mitchell gli scova sul muso.

"Fuck …"

La prima volta che ha beccato Marshall a stonarsi con il tranquillante per cavalli si è fatto una risata. L’ha chiamato “Ponyboy“ per una settimana. Una decina di giorni fa neanche la maniera offuscata in cui torce il collo e lo mette faticosamente a fuoco, quasi senza riconoscerlo, l’avrebbe allarmato granché; ma non avrebbe visto i buchi lungo le sue braccia, né riconosciuto il marchio della switch nel fondale torbido dei suoi occhi annacquati.

"’The hell have you been."

Abbandona il fucile al fondo delle scale e gli si accoscia davanti per ingoiarsene l’attenzione fragile, seduto sui talloni scalzi, coi jeans infilati di fretta e la tshirt sgualcita ancora impregnata di sonno. Nina dorme da qualche parte, al piano di sopra, stremata dalle lacrime. Marshall tira su dal naso rumorosamente, strizzando un occhio nella contrazione sfastidiata, incerta, dello zigomo affilato; come se la faccia di suo fratello mandasse barbagli di una luce insostenibile.

"Marsh. Hey."

Mitchell digrigna i denti e gli molla uno schiaffo ruvido, che lo costringe a sbattere le ciglia e sgranare le palpebre per rimetterne a fuoco l’apprensione nervosa. Scolla una mano da terra e se ne strofina il dorso contro il muso ispido: nei suoi vestiti è intessuto un odore rancido di bile che strozza le budella di Mitchell e gli spinge su per la gola il contenuto nullo del proprio stomaco. Lo tiene giù a fatica, arpionando la mandibola lenta del fratello con cinque dita spesse. Marshall scrolla confusamente la testa, sfuggendo alla morsa dei polpastrelli callosi per accennare a rimettersi in piedi; i muscoli intorpiditi gli si tendono nella carne come corde, ma cedono rovinosamente nell’arco di un sussulto scomposto.

"I think I just-…" – il soffio che gli cola di bocca è un filo aggrovigliato di voce bassa.

Mitchell scivola sulle ginocchia con un tonfo pesante di ossa e legno, allungando le mani per serrare le tempie del fratello nel palmo spazioso e raccogliere lo smarrimento dei suoi occhi vuoti, la consistenza sporca e umidiccia dei capelli bruni stravolti. Marshall si confessa lentamente, accalcando un mormorio sconnesso dietro l’altro – quello che sente infila sotto la pelle d’oca di Mitchell una disperazione fonda, inchiodandogli la nausea sotto lo sterno e, nelle nocche, il desiderio di colpire la smorfia disorientata di Marshall fino a spappolargliela.

"I told you to fucking leave it. I- …"

"… I know."

"Shit. – gli molla la testa di getto, allungando le dita contro la nuca soffice e bionda per rasparsi la cute fino a graffiarla, – Cristosantissimo, spiegami. Pensi- … Fuck, pensi che questo sia quello che vorrebbe, quello che dovevi fare, quello che- … Pensi che questo la farebbe stare meglio, è questa la merda che hai in testa?"

Mitchell parla troppo velocemente, chiudendo in gola a fatica la tendenza della voce ad incrinarsi. Non sa nemmeno se la pressione che gli si è gonfiata nel petto, comprimendogli dolorosamente i polmoni, sia l’urgenza di piangere oppure una risata. Marshall appende un’occhiata sfocata alle sue labbra, vincendo a stento la nausea e le nerbate di sconforto che gli occhi e la voce di suo fratello gli calcano nei muscoli sfatti. Scrolla la testa e deglutisce un mattone di saliva, senza frenare l’arricciata brutale delle labbra lungo il muso scosceso.

"Fa stare meglio me."

… Ma l’occhiata pregna di scetticismo limpido che Mitchell gli sbatte in faccia lo spoglia di vestiti e carne, rendendogli un brivido di freddo e l’impressione di avere ancora dieci anni. Si lascia afferrare e rimettere in piedi col salotto che vortica, squagliando l’alternanza di ombre e luce in un caleidoscopio nauseante, mentre il fratello maggiore ne raccoglie i cocci, infilandogli la testa sotto il braccio per trascinarselo verso il corridoio.

"Ti devi fare una doccia."

È solo che a dieci anni non conosceva un terrore così fondo.