sabato, febbraio 22

Talkin’ ’bout a revolution.

23 Febbraio 2516,
Bullfinch (Amarillo).
Interno giorno.


Justice fa ciondolare le gambe troppo magre dallo sgabello troppo alto, dondolando la testa bionda contro una mano aperta. Affonda l’indice minuto nel barattolo del miele e lo rigira a mezz’aria per vederne colare la ragnatela d’ambra liquida.

"… Perché non me lo ha detto lui?"

Sbircia di sottecchi suo padre, seduto sullo sgabello di fronte al proprio con le spalle enormi ripiegate e i gomiti nudi appoggiati contro le cosce. Lui le sorride, soffiando in alto per scostare dalla fronte qualche ciuffo della frangia biondiccia (ci prova anche lei, ma ottiene solo d’incrociare fastidiosamente gli occhi nel tentativo di sbirciarsi i capelli).

"Voleva parlarti di persona invece che via cortex."

Mitchell Lee si stringe nelle spalle; la bambina torna a far sgusciare gli occhi limpidi contro le bave di miele che le si srotolano attorno al polpastrello.

"Ah. – tira su dal naso come ha visto fare suo zio centinaia di volte; come potesse catturare sulla pelle di suo padre l’odore della menzogna. – … E allora perché me lo dici tu?"

Mitchell allunga una mano contro il bordo del barattolo e glielo sfila da sotto le dita, affondandoci il proprio indice spesso, grande sei volte quello di Justice, per spalmarselo tra le labbra fradicio di miele. Ne succhia via la patina dolce con un ghigno soddisfatto, schiaffeggiando lo sguardo sospettoso di sua figlia col bagliore vispo di occhi trasparenti.

"Per rovinargli la sorpresa."

Justice Lee, quasi sei anni, sospira e allunga un calcetto indolente contro il ginocchio dell’uomo, seppellendo un sorriso dietro la smorfia di sufficienza che ha imparato imitando zia Nina allo specchio.

"Jeez, pa’, sei proprio un bambino."

Dopotutto, pensa mentre s’infila in bocca l’indice coperto di miele, Hope Lee non è un brutto nome.