lunedì, settembre 29

And driving down the road I get a feeling that I should have been home yesterday ...

28 Settembre 2516,
Safeport (Baraccata Est).
Esterno notte.


Il garage brucia, il cortile allagato di sangue brucia.
In piedi sul tetto di una palazzina di cemento, Marshall guarda il covo dell’ennesima banda di Sunset Tower andare a fuoco.
Buon Exodus Day, brucia le cose che non vuoi portare con te nel nuovo anno.
Al fumo acre della sigaretta si mischiano l’odore della polvere da sparo e dei detriti fusi, del metallo squagliato dalla fame dei missili. Il flak jacket gli comprime fastidiosamente il torace, e quando slaccia le cinghie le strattona con l’urgenza brutale di una bestia chiusa in gabbia.
Si spoglia degli strati di kevlar, ma non riesce a scollarsi di dosso la sensazione di essere nel posto sbagliato.
Di rischiare la vita per il pianeta sbagliato.
Nemmeno se chiude gli occhi riesce a immaginare di essere immerso nel profumo fresco e pungente dei larici e dei faggi, dei pioppi balsamici arroccati sul dorso delle St Louis Mountains.

"… Che il marcio si è mangiato Sunset Tower fino alle fondamenta già decine di anni fa, che ci consumiamo e ci spacchiamo le ossa a spremere sangue dalle rocce per rimettere in sesto un pianeta che non è il mio e non è neanche il tuo, e invece che fare la guerra agli alleati la facciamo ai criminali in casa nostra …
Solo che quella non è casa nostra."

Scivola a sedere sui calcagni accanto al flak jacket, accanto al lanciagranate ancora tiepido. Strozza il filtro della sigaretta fra due dita spesse e se lo preme fra le labbra, ingoiando colate di catrame e insofferenza.

"Ti scoraggia sapere che stai lottando per un pianeta che non cambieremo mai o hai paura che sprecherai la tua vita e quelle dei tuoi figli su Safeport."

Cosa getteresti nel fuoco?

"Prova solo a prendere in considerazione l’idea che il fronte di questa guerra è immenso e forse stiamo perdendo tempo a combatterla nel posto sbagliato; forse per liberare un pianeta alla volta dovremmo partire dal pianeta su cui vogliamo vivere e far crescere quei ragazzini."

Sputa via il mozzicone e si tira in piedi, recuperando l’equipaggiamento per portarselo dietro quando ripiega verso le scale antincendio, lasciandosi alle spalle il cortile pieno di morti e di feriti che agonizzano dal lato sbagliato della rete.

"Se fra un paio d’anni le cose non saranno cambiate io tornerò su Bullfinch per fare quello che sto facendo adesso, vivere e lottare, nel posto in cui lo voglio fare.
… In cui avrei sempre voluto farlo."


Cosa getteresti nel fuoco?

Safeport.

domenica, settembre 28

Ghosts.

28 Settembre 2516,
Bullfinch (Amarillo).
Esterno notte.


Il fuoco schiocca e scoppia dentro il cerchio di pietre, nello spiazzo di terra battuta circondato dagli alti alberi neri. Dalla porta a vetri della baita, l’unica chiusa, filtra uno spicchio di luce prosciugato dal legno della veranda.
Justice, Hope e Dodò si sono addormentati uno sull’altro, nello stesso letto, dopo aver spolpato il Brigade di frutta e cioccolato che Nina e Mitchell hanno speso mezza giornata ad assemblare: ci hanno dovuto mettere un paio di rape, per fare volume, e i bambini le hanno sputate ridendo.
In un silenzio di tomba che non è silenzio, popolato dagli scricchiolii del fuoco e dai lamenti profondi della foresta, Nina ravviva i ciocchi e posa l’attizzatoio sul terreno macchiato d’erba. Poi, seduta sui calcagni e avvolta nelle pieghe abbondanti di un maglione di Marshall, riconta senza aprirli i bigliettini di carta fermati sotto a un sasso, perché il vento non se li porti via.
Mitchell ha le natiche posate sul ciocco basso che usano per tagliare la legna. Ha spostato l’accetta in terra, appoggiandosela di fianco, e strofina le mani callose con la schiena arcuata e le braccia premute sul sostegno delle cosce.
Nina gli spinge un’occhiata in faccia.

"Non bruci niente."

È la tradizione dell'Exodus Day, bruciare le cose che ci si vuole lasciare alle spalle, e nessuno ha mai visto Mitchell buttare qualcosa nel fuoco.
Il maggiore dei fratelli Lee apre le mani con un sorriso dolciastro, impregnato di ironia pacifica; di una leggerezza esausta.

"Se pensassi che questa cosa funziona dovrei dare fuoco alle fondamenta." – considera, chinandosi a recuperare per il collo la bottiglia di whiskey abbandonata fra i piedi.

Nina preme le sopracciglia bionde all’attaccatura del naso, accartocciando fra i lineamenti una smorfia d’incomprensione ostinata.

"Questa casa è come maledetta. – Mitchell torce il collo, scorrendo gli occhi chiari e malinconici lungo la facciata di legno della baita. – … Pensaci, io ho sposato Maryanna subito prima della guerra, ma non ho mai avuto il tempo di andarmene con lei a vivere da qualche altra parte."

Scolla l’indice dal vetro per additare sommariamente la sorella minore.

"Tu dovevi sposare Bobby, e guarda com’è finita. – si versa in gola un sorso di liquore; – … Anche Sharon è morta che voleva mollare questo posto."

Attraverso il bagliore delle fiamme, Nina vede il suo sorriso accartocciarsi come i lembi di un foglio di carta consumato dal fuoco; gli zigomi scintillanti d’acqua come se il fumo gli fosse finito negli occhi.

"Siamo inchiodati qui come fantasmi …"

La sua voce bassa non si incrina mai, ma è quando la bottiglia rotola in terra che Nina si tira in piedi con calma e raccoglie i biglietti per rovesciarli nel fuoco con una mano, senza cerimonie, prima di aggirare il falò per allungarsi a raccogliere la testa di Mitchell, sollevandola incontro alla propria quando si china ad appoggiarci la fronte.

"Non importa se non le scrivi su un foglio e poi le bruci, certe cose devi lasciarle andare. – ne cerca gli occhi uguali ai propri, ignorando il peso delle mani robuste che le stringono i polsi; – … Non una volta all’anno, ma tutti i santi giorni della tua vita."

Gli scorre un pollice ruvido sotto le ciglia umide.

"C'mon, gli uomini veri piangono solo quando sono bambini e quando sono vecchi … E tu bambino non mi sembri proprio."

Mitchell scrolla il muso ispido, spingendola da parte con una risata stupefatta.

"Christ, i Lee … – si asciuga la faccia col dorso di una mano; – Che razza di stronzi fottuti."

domenica, settembre 21

Pitch-black.

20 Aprile 2505,
Bullfinch (New Dallas).
Esterno giorno.


'Maryanna.'

Il sole è alto, buca le nuvole spazzate da un vento rabbioso, che solleva la polvere dell’arena dove la luce e le ombre si rincorrono come gli zoccoli dei cavalli e del bestiame.
Maryanna scivola tra la folla, fra l’odore di sudore e di fieno, di escrementi e di tabacco masticato, per appendersi al braccio solido di Mitchell e tendersi in punta di piedi a baciarlo sul collo.

"She’s superready, big bro’."

Il maggiore dei Lee torce il muso ispido, offrendo alle dita sottili della nipote del pastore Bowen la zazzera corta e bionda che l’afa ha reso umida all’attaccatura: non è mai tranquillo, quando Sharon si lancia sul palcoscenico di polvere rossa in sella a un cavallo come Hooligan, e Maryanna gli sente sfrigolare la tensione nervosa sopra la pelle mentre si tira indietro, stropicciando un sorriso eccitato con una mano appesa alle pieghe della sua camicia, fra le scapole robuste, e l’altra aperta sul legno spesso della staccionata.
Hooligan è lo stallone più grosso che si sia mai visto nelle stalle del Red Hooves, un diavolo nero e instabile che schizza fuori come un lampo attraverso il varco aperto nel recinto dell’arena. Si torce e si ribalta, e Sharon gli resta inchiodata in groppa con la grazia tenace e disadorna di muscoli asciutti, tesi come corde, plasmati da una vita passata a sognare il rodeo.
Gli speroni brillano al sole, lo Stetson volteggia in aria liberando una cascata di capelli bruni come uno schiocco di frusta.
Maryanna si sente mancare il fiato quando l’arco della schiena di Sharon si ribalta improvvisamente, atterrando nella polvere con uno schianto. Grida forte, con tutto il fiato che ha in gola, quando il cavallo s’impenna e travolge il corpo disarcionato in un tumulto di zoccoli e terra rossa.
La forza per urlare ancora le si spegne in corpo, assieme al sostegno delle ginocchia, quando sente Mitchell strapparsi alla stretta convulsa delle sue dita per scavalcare la staccionata: le lascia in mano solo un lembo di camicia.


'Susan.'

Suzie trascina una mano fra i capelli scuri e stropiccia una smorfia nervosa.

"Dove cazzo sta? Sua sorella è già uscita …"

Butch le prende il polso fra le dita ruvide prima che possa spostare le proprie dalla nuca alla bocca, salvando le unghie corte dalla tortura dei suoi denti piccoli e allineati come perle.

"Adesso la troviamo." – le assicura, pacato, con quella fede pacifica e incrollabile nella riuscita di ogni cosa che lo rende, ai suoi occhi, luminoso come un secondo sole.

… Ma sente la morsa gentile inasprirsi bruscamente quando un singulto di fiato sospeso investe la folla tutto intorno, e il viso che Butch aveva voltato in cerca di Sharon s’indurisce nel calco rigido della paura.
Suzie gira la testa e vacilla, a bocca schiusa, annaspando per metabolizzare l’incubo di sagome scure che i suoi occhi travedono al di là della nube di polvere che si è levata fra gli zoccoli dello stallone.
Alla periferia dello sguardo vede un proiettile, che ha la forma di Marshall Lee, schizzare verso il cuore dell’arena, e le sue gambe si muovono di slancio per trascinarla nella stessa direzione.
Lo strattone che la presa di Butch le scarica in corpo, trattenendola, è doloroso come se le avesse spezzato il braccio.

"Non saresti d’aiuto."

Sono le unice parole che si scuce, domandola come un puledro riottoso per trascinarsela contro il petto largo, nella stretta delle braccia solide, e lei lo manda al diavolo.
Lo manda al diavolo e si lascia stringere, perché ha ragione lui e non c’è niente da fare.

 
'Mitchell.'

Mitchell deglutisce il cuore schizzato in gola ed inchioda nella polvere per raccogliere le briglie dello stallone impazzito: le strattona forte, ci si appende per vincere i muscoli titanici di Hooligan con tutto il proprio peso, spazzando l’arena con un’occhiata meccanica e nervosa. Trova il primo ranchero a cui mollare confusamente in mano l’animale, ma quando raggiunge il corpo rovesciato a terra avverte come l’improvvisa mancanza del collo d’acciaio del cavallo cui aggrapparsi.
Il viso di Sharon è impolverato e pallido, i suoi occhi chiusi, e c’è qualcosa di orribilmente sbagliato nella maniera in cui il torace le si è ammaccato sotto la camicia impastata di sangue.
Mitchell respira forte, paralizzato, fissando la schiena larga di Marshall che si tende e si curva sul corpo esanime di sua sorella; le sue mani affondate fra gli avanzi delle costole spezzate, i lineamenti aspri contratti nell’angoscia disperata di una corsa contro l’inevitabile.
I minuti passano in fretta, la barella sta arrivando.
Mitchell è come ipnotizzato dagli spasmi dei muscoli abbarbicati lungo le braccia che strappano e allargano la stoffa. Marshall che spinge le dita dentro il costato di Sharon, Marshall che trema e ruggisce un latrato di frustrazione.
La barella sta arrivando.
Deve trascinarsi una mano in faccia, a un certo punto, e tastare gli zigomi e la fronte per accertare che ci siano ancora, perché non si sente più la pelle e le ossa del viso. Ha la testa piena del battito bollente del cuore che scalpita fra le tempie, otturandogli le orecchie come un batuffolo d’ovatta.
Si riscuote bruscamente quando vede, finalmente, la barella con i due uomini che la portano, e si avvicina a Marshall per scuotergli le spalle e dirgli che è arrivata.
Marshall si tende come dovesse saltargli al collo, rivoltandosi come un cane rabbioso, ma solleva una mano insaguinata per cercare un polso al quale aggrapparsi e si tira in piedi.

"Ci sei? Mettiamola su."

Mitchell si muove verso Sharon, ma trova l’ostacolo delle dita viscide e calde appese al proprio braccio.

"Ce la mettono loro."

La voce di Marshall è spenta, proviene da un luogo buio e freddo che non può essere nel corpo di suo fratello.
Mitchell scrolla la testa, libera il polso con uno strattone.

"Che cazzo vuol dire che ce la mettono loro, sei tu il medico, sei tu- …" – la voce gli si contorce in gola come il guaito di un cane, e Mitchell cerca un appiglio sul viso di Marshall, pallido e lucente di sudore, cupo come se non ci fosse sole in cielo.

"… Non ti puoi fermare."

Mitchell lo scuote per le braccia, e mentre i due sconosciuti venuti con la barella sollevano Sharon per caricarcela ha come la sensazione di doverli fermare subito, l’impressione che se gliela lascia prendere adesso sua sorella sarà andata, persa per sempre.

"Non ti puoi fermare. – insiste; – Com’è che si fa quella cosa …"

Allunga le mani verso il petto di Sharon, ma Marshall lo afferra per una spalla e lo trascina indietro con una violenza che basta a schiaffeggiargli l’equilibrio.
La zuffa è esplosiva e disordinata, volano un paio di pugni prima che il minore dei Lee riesca a sradicarsi dalla gola un boato di collera disperata da sputare in faccia al più grande.

"She’s fuckin’ gone, Mitch."

La barella si allontana, Mitchell si appende al braccio teso di Marshall e la insegue con gli occhi che gli vanno a fuoco, annaspando senza più voce, aprendo una mano in cerca della faccia di suo fratello per trovargli le guance umide, rigate dallo stesso male di cui si sente traboccare le ciglia.


'Nina.'

Nina se l’è filata dietro i box a bere Gran Riserva e a fumare con un ranchero qualche anno più grande di lei.
Si chiama Billy Dean e non le piace granché, malgrado abbia gli occhi più blu di tutta New Dallas e muscoli da far girare la testa a qualsiasi ragazza del paese.
Nina lo trova poco affascinante, poco interessante, addirittura vagamente noioso. È convinta che sia per questo che lui le ronza intorno: non è abituato a non sentirsi all’altezza, e per un ragazzo così ci dev’essere qualcosa di nuovo e di diverso, addirittura di eccitante, nel sentirsi inadeguato per la prima volta.
Non hanno niente da dirsi e non si parlano, passandosi la sigaretta imbottita di Bloom con cadenza oziosa, lui appoggiato a una trave di legno e lei seduta sul bordo di una staccionata che un tempo serviva a tenerci i vitelli, ma adesso è da anni che rimane vuota. Immersi nell’odore di paglia e circondati dal nitrito delle bestie, le grida e il panico scivolati dentro e intorno all’arena hanno sfiorato a stento la dimensione ovattata in cui si guardano senza decidersi a bruciare la distanza elettrica fra occhi e bocche.

"… Nina."

La voce di Susan la fa sussultare forte prim’ancora che possa rendersi conto dell’umidità di pianto che gliel’ha resa rauca.
Billy Dean si gira, confuso, scostandosi di lato con aria un po’ colpevole, un po’ incerta, quando vede l’uomo biondo alle spalle della ragazza in lacrime e lo scambia, forse, per il padre di Nina.
Lei batte le palpebre, mette a fuoco l’acqua che riga la pelle di Suzie senza riuscire a distinguerne la faccia. Stropiccia una smorfia perplessa, in bilico fra la noia e la contrarietà (forse è la Bloom, ma nello stomaco le si annoda lentamente un groviglio d’ansia nervosa).
Si aspetta una sgridata, ma Suzie le caracolla addosso per investirla con un abbraccio tremante.
La sigaretta le brucia le dita e cade a terra.

"Mi dispiace, kiddo, mi dispiace tanto …" – Suzie le mormora piano sui capelli, contro la fronte, appiccicandole impronte d’acqua salata sulla pelle.

Nina ne cerca le braccia con dita ruvide, la spinge indietro per cercare un appiglio oltre la sua spalla, sul viso di Billy Dean: ne ricava solo un’occhiata stordita e un’impennata dell’agitazione che le ha stretto il respiro in un cappio d’inquietudine.

"… Suz?" – è tutto quello che riesce a dire, seppellendo l’incomprensione nella china interrogativa della voce.

Susan scorre cinque dita magre fra i capelli, altre cinque sotto l’occhio destro.
Butch Fogerty si conquista lentamente il suo fianco, schiudendo la bocca per cavarne un filo di fiato asciutto, inaridito dall’incertezza e troncato dal gesto risoluto con cui Suzie lo interrompe per sputare fuori un grumo di voce come un dente marcio.

"Sharon è caduta, Nì."

Nina schizza in piedi come se il legno della staccionata avesse cacciato le spine, a occhi spalancati dentro quelli rossi e bagnati di Susan che le raccontano il resto senza parole. Cerca una conferma sulla faccia di Butch, trovandoci un dolore saldo come la roccia.
Ha appena il tempo di realizzare che le stanno tremando i polsi, prima che un conato di vomito la costringa a piegarsi in due.
Le mani magre e gentili che le tirano via i capelli, mentre tossisce birra e succhi gastrici sul pavimento di paglia, sono le stesse che cerca disperatamente quando nel petto le si apre un pianto così forte da spaccarla in due.


'Dorian.'

L’officina è immersa nella penombra, le persiane asserragliate contro il sole e un solo spicchio di luce rovesciato di traverso sulle assi del pavimento.
Dorian siede sopra una cassetta degli attrezzi e rigira un cacciavite fra le dita robuste, un po’ tozze, tenendo le altre cinque appese al collo di una bottiglia di whiskey già agli sgoccioli.
Sa che Sharon dev’essere già montata in sella, a quest’ora. Se chiude gli occhi riesce quasi a vederla cavalcare nel centro dell’arena, sul dorso scalpitante e nero dello stallone, sotto gli occhi di tutti.
Sotto gli occhi di tutti.
Riesce a vederla cavalcare sull’addome piatto di Jamie Allen, fra le lenzuola fradice di sudore. Riesce a vederla contorcersi mentre lui la guarda e la bacia e la tocca e la guarda e la rivolta sul materasso per scoparsela ancora e ancora.
Nuda al centro dell’arena.
Nuda sotto gli occhi e nella fantasia di tutti gli uomini che sognano di scoparsela come Jamie Allen che, quando la guarda, è come se se la scopasse con gli occhi.
Si sente prudere le mani e la gola mentre la gelosia gli rivolta i muscoli.
… Per primo finisce a terra il cacciavite, poi la bottiglia. Poi la griglia di ferro appesa al muro, e una cascata di chiavi inglesi che tintinnano sui cocci di vetro. 
Dorian si sbuccia le nocche sul legno nella smania di abbattere un paio di scaffali, cercando a tentoni un martello da schiantare sulla carrozzeria della jeep a cui lavora da giorni, per ammaccare impronte di fiori nel cofano fino a farsi pulsare di dolore i muscoli e la testa.
Sfonda il parabrezza incrinato con un pugno, prima di colare a sedere fra la portiera e il pavimento.

Si trascina le mani insanguinate in faccia e scoppia a piangere come un bambino.



Ho chiuso la finestra
perché non voglio sentire il pianto,
ma al di là dei muri
non si sente che il pianto.

Ci sono pochi angeli che cantino,
ci sono pochissimi cani che latrino,
mille violini stanno sulla palma della mia mano.

Ma il pianto è un cane immenso,
il pianto è un angelo immenso,
il pianto è un violino immenso,
le lacrime mordono il vento
e non si sente altro che il pianto.