giovedì, novembre 28

Nobody knows my name, but everybody calls me.

27 Novembre 2515,
Bullfinch (Almost Home).
Interno notte.


Marshall è piegato in due sulle ginocchia. Una mano aggrappata al coperchio sollevato della tazza, l’altra spalmata sul pavimento. Annaspa, smaltendo gli strascichi del conato che gli ha fatto rigettare il residuo scarso, slavaticcio e acre dell’ultima razione ingerita.

"Shit."

Raschia la gola e sputa due, tre, quattro volte; senza riuscire a svuotarsi la testa dalla nausea liquida in cui galleggia il cervello. I muscoli tremano, scossi da spasmi contratti e incostanti che affilano il bordo delle scapole incastonate lungo la curva della schiena nuda. Serra le palpebre, ma l’ondeggiare sfocato di tratti di pelle e spigoli d’ossa torna a rivoltargli lo stomaco come un guanto, al contempo strizzandone i lombi dentro una morsa di dita calde e invisibili. Inspira e deglutisce a fondo. Cerca nel bianco limaccioso dei succhi grastrici gli occhi di Cortes, il ronzio che gli scroscia nelle orecchie si affila lentamente sulla frequenza della sua voce. Tu ci servi dio solo sa quanto e il tuo unico compito è ricucirmi e ributtarmi nel mattatoio ancora e ancora e ancora finché non mi dissanguano e non potrai più aggiustarmi. Tu ci servi dio solo sa quanto e il tuo unico compito è ricucirmi e ributtarmi nel mattatoio ancora e ancora e ancora finché non mi dissanguano e non potrai più aggiustarmi. Tu ci servi dio solo sa quanto. Ancora e ancora e ancora.

"... Shit."

Rantola una risata rotta, piegando la fronte sudata contro il braccio scoperto – ce la sfrega di traverso, incastonando la bocca lucida di umori amari nell'incavo del gomito. Ricucirmi e ributtarmi nel mattatoio ancora e ancora e ancora. E ancora. Il battito cardiaco gli martella fra le tempie. Scolla precipitosamente la mano da terra per snudare, torcendo la pelle, le tacche nere tatuate lungo il corso interno dell'avambraccio. Le fissa, dietro il velo umido del malessere, finché lo sguardo non si sdoppia rimescolando pelle e inchiostro. Il singhiozzo soffocato che gli nasce dentro al petto istiga un nuovo conato violento, ma non ha più niente da vomitare. Finché non mi dissanguano e non potrai più aggiustarmi. Marshall si trascina in piedi, fino al lavello su cui chinarsi e sputare. Sciacqua la faccia con l'acqua fredda, sfregando l'avambraccio unto di bile e saliva sotto il getto. Tira su il mento, incontrando il tumulto limpido degli occhi arrossati, umidi, che lo fissano attraverso lo specchio – non sa perché, ma il suo riflesso gli rimanda un sorriso strafottente.

Il cuore è come un tempio, stronzo.