giovedì, giugno 19

What if reality is nothing but some disease?

19 Giugno 2516,
Horyzon / Bullfinch.


Mitchell ha trascinato a letto Justice, l’ha inchiodata sotto le coperte e l’ha ascoltata raccontare degli uomini-ragno che Marshall ha dovuto affrontare, nelle segrete scure e maleodoranti di Capital City, per sopravvivere un altro giorno e poter tornare a casa, quando finalmente avrà trovato le chiavi di Shangri-La e sarà libero di uscire dalla pancia di pietra del Grande Serpente del Core.
Mentre le accarezza i capelli biondi e si assicura che dorma, Mitchell si dice che va bene, qualsiasi storia sua figlia abbia inventato per accettare la condanna di suo zio va bene, qualsiasi cosa le permetta di aspettarlo senza piangere va bene; ma si chiede anche, come gli capita di fare più spesso e più inquietamente ogni anno che passa, se la fantasia di Justice non finirà per ingoiarsi ogni contatto con la realtà.
Nina scrolla le spalle, dice che è ancora piccola, che ogni bambino ha i suoi tempi, e gli confessa che lei, a dieci anni, credeva ancora che un lupo abitasse nell’oscurità sotto il suo letto.
Mitchell ci ride su, le dice che se lo ricorda bene, che lui e Marshall dovevano sempre prenderla in braccio per portarla in bagno durante la notte, perché non toccasse mai il pavimento nei pressi della tana del mostro. Le dice che la giornata giù al ranch degli Hawkins è stata pesante, che ha tutte le ossa rotte e, se non si butta sul letto anche lui, finirà per addormentarsi in piedi.

Il tuo compagno di cella cerca di buttartelo nel culo il terzo giorno. Gli fai saltare due molari e gli prometti solennemente che se ci prova ancora sarai tu a svuotarti le palle nelle sue budella. Lui non ti crede, non sulla parola, e quando ti mette di nuovo le mani addosso l’unica pasticca di Nootropam che sei riuscito a farti dare dalla ragazzina stinta della Blue Sun il tuo cervello se l’è già digerita, per cui lo vedi schiumare e digrignare i denti come un malato di rabbia che vuole strapparti la gola a morsi.
I secondini ti sciolgono i muscoli col manganello elettrificato prima che tu possa misericordiosamente spaccargli a calci la testa, evitandogli che la malattia che non ha se lo finisca fra atroci sofferenze.

Ti spostano in isolamento, e questo è un problema: quando sei a mensa, o nel cortile interno, puoi cercare di indovinare la natura inconsistente delle allucinazioni setacciando le facce degli altri detenuti. Se lo vedono esiste, se non si accorgono di niente, per quanto reale sembri, dev'essere solo dentro la tua testa.
Ma se nella cella sei solo, allora ci siete solamente tu e te stesso a giocare la partita.
E hai scoperto che sei uno che gioca sporco.


Mitchell si rivolta sul materasso come se fosse fatto di chiodi. Il sole è quasi alto oltre le finestre velate di nebbia, e lui non riesce a dormire. Conta le assi del soffitto, poi conta i muscoli indolenziti che gli pulsano sotto la pelle. Si chiede quanto gli costerebbe un viaggio fino a Horyzon, se può permetterselo, se Marshall sarebbe sollevato di vederlo o se gli sputerebbe in faccia. Si dice che Cortes avrà bisogno di aiuto con il bambino. Che forse Cortes avrà bisogno di aiuto anche con se stessa.

Fra le pagine del libro di poesie che ti hanno mandato a volte trovi frasi scarabocchiate a penna da una mano che conosci. Certe volte è la calligrafia esitante di Justice, altre la stessa che ti ha inciso parole d’amore per Bullfinch dietro la schiena. Più spesso, sei convinto che a seminare inchiostro fra i paragrafi stampati sia stata la penna ubriaca di Cortes.
"Il giorno che morirò sarà perché tu eri girato a guardare da un’altra parte, zio."
"Tuo figlio l’ho annegato nel cesso dell’Almost Home, Marshall Lee, perché tu non ci sei e siamo soldati, la guerra non fa prigionieri."
"Guardati le mani, lil’one."
Ti guardi le mani e i polsi lividi, annusando la cancrena che ti sta facendo marcire lentamente dalla punta dei polpastrelli e che va e viene con gli squilibri chimici del tuo cervello, come gli scarabocchi fra le pagine, come i fantasmi dei vivi e dei morti che affollano la tua cella: Sharon viene a trovarti il quarto mese, e le tue preghiere ("ti prego no, ti prego, vattene") non valgono a niente contro il suo fantasma collerico e dolce.
Una notte ti svegli di soprassalto e c’è Volkov, nero come la pelle di un toro, chino sopra di te. Ti respira sulla faccia l’odore acre del semtex esploso, inchiodandoti per le spalle con mani enormi e occhi cupi come due buchi neri incastonati nella carne. Ghigna lentamente, appoggiandoti un panno sul naso e sulle labbra prima di versarti in gola e nei polmoni l’acqua sporca di Safeport, facendoti domande a cui non puoi rispondere in una lingua scivolosa e incomprensibile che è quanto di più simile, nella tua testa, al russo di Koroleva.
Ti contorci e boccheggi, soffocando, finché Volkov ti bacia al centro della fronte madida e strappa via il panno umido dalla tua faccia per dirti: "Respira adesso, ti ho perdonato", e alla sua voce si sovrappone lentamente quella di Elian Chernenko. 


Mitchell, seduto sul bordo del letto, appoggia gli avambracci contro le cosce e sbircia il sole inondare le finestre rigate dai rimasugli di bruma. Tra le dita spesse rivolta nervosamente il cortex pad, cercando da qualche parte, fra le cime degli alberi neri stagliati attraverso il vetro, le parole giuste.



[…]

A partire da un paio di settimane dopo l'esito del processo, Marshall riceverà (dopo un severo controllo dei secondini) un tomo cartaceo decisamente voluminoso. E' una raccolta di poesie degli autori più svariati, che va dai celebri poeti Corer ai più misconosciuti poeti del Rim. Dopo aver ricevuto quel pacco, settimana dopo settimana (molto puntualmente) riceverà una lettera cartacea ogni domenica. Le lettere non sono firmate e non riportano il mittente, e contengono soltanto un bigliettino con sopra scritta una pagina (ogni pagina, una poesia da trovare sul libro). La cosa sembra voler andare avanti per tutta la permanenza di Marshall in prigione. 

 

La prima lettera rimanderà alla pagina della seguente poesia, firmata da una celebre poetessa del Core della seconda metà del (duemila)Quattrocento:


 

The art of losing isn't hard to master; 

so many things seem filled with the intent

to be lost that their loss is no disaster,

 

Lose something every day. Accept the fluster

of lost door keys, the hour badly spent.

The art of losing isn't hard to master.

 

Then practice losing farther, losing faster:

places, and names, and where it was you meant

to travel. None of these will bring disaster.

 

I lost my mother's watch. And look! my last, or

next-to-last, of three loved houses went.

The art of losing isn't hard to master.

 

I lost two cities, lovely ones. And, vaster,

some realms I owned, two rivers, a continent.

I miss them, but it wasn't a disaster.

 

- Even losing you (the joking voice, a gesture

I love) I shan't have lied. It's evident

the art of losing's not too hard to master

though it may look like (Write it!) like disaster.