mercoledì, giugno 11

Fortress.

14 Giugno 2507,
Blackrock (Sedona Rift).
Interno giorno.


Il sudore cola lungo la pelle come l’umidità condensata sulle pareti interne della grande tenda inchiodata sotto il sole di Dào. Manca ancora qualche ora al tramonto, quando la carezza abrasiva del giorno si lascerà inghiottire dalle sfumature rosate dell’orizzonte roccioso insieme alla calura arida che il panneggio dell’infermeria da campo trasforma, come una serra, in un sudario d’afa soffocante.
Un rivolo pesante e salato scorre lungo il naso di Marshall, che torce il muso contro la spalla per evitare che goccioli fra le carni aperte che sta ricucendo. La canotta fradicia gli sta incollata addosso come una seconda pelle. Come l’urgenza di farsi.
Non sa esattamente da quante ore se ne sta accosciato accanto alla lettiga posata, per mancanza di spazio, direttamente sul telo teso sopra la terra calda del Deserto Rosso, ma il ragazzo di vent’anni sdraiato nella poltiglia del proprio browncoat invischiato di sangue non ha ancora riaperto gli occhi dal momento in cui sono riusciti a portarlo dentro.
Pallido come un cadavere, la sua carne bianca rende le strisciate rosse che la imbrattano fluorescenti come certi fiori che Lee ha visto sbocciare lungo le strade di Oracle.
Non sa da quante ore sta cercando di tenere il soldato ferito, che forse si chiama Beltran o forse Custer (le piastrine non gliele ha neanche guardate, tanto non hanno più sacche da trasfusione), non sa da quanto sta cercando di tenerlo appeso al filo sottile della vita, ma sa che si è infilato in vena l’ultima dose almeno quattordici ore fa e le dita callose ormai cominciano a masticargliele i crampi. Il rosso vivo del sangue fresco gli si squaglia dentro agli occhi come i ceri sciolti sui banchi di legno nelle chiese di Timisoara e di Amarillo.
Il fruscio della lunga gonna che si ammucchia sul pavimento gli schiaffeggia i sensi intorpiditi e trascina lo sguardo contro il viso lentigginoso e affilato, bruciato dal sole a una maniera che le rende la pelle rossiccia quasi quanto la spessa treccia appesa dietro le spalle, della donna scivolata a sedere sui calcagni all’altro capo del lettino.

"Le tue suture sono imprecise."

Joan Greene ha quasi quarant’anni e una faccia scavata dal sole di Rio Verde come le crepe sulla pelle di Salinas Grandes; due labbra troppo asciutte e zigomi alti come scogliere. Trascina lungo l’addome del soldato gli stessi occhi limpidi e penetranti che arpionano il volto madido dell’uomo, oltre dieci anni più giovane di lei, accartocciato a ricucire il solco slabbrato delle schegge sparpagliate nella carne da un colpo di mortaio.

"Una sutura imprecisa può voler dire cheloidi, aderenze, cancrena. – quando la donna allunga una mano ossuta per sfilare l’ago viscido di sangue alle sue dita spesse, Marshall spiana le spalle con una smorfia indolenzita e vagamente guardinga. – … Può voler dire un soldato morto."

Lee non ha niente da dire mentre strofina i polpastrelli insanguinati sulle pieghe della canotta madida, poi fra i capelli brunastri e altrettanto sfatti.
I suoi occhi appannati inseguono l’ago ricurvo dentro la pelle del soldato con fascinazione riluttante; i gesti svelti e accurati della dottoressa Greene gli piantano sotto pelle un formicolio nervoso e, in fondo allo stomaco, un seme d’ammirazione germogliato nell’insofferenza.
Nei mesi trascorsi su Blackrock ha imparato a interpretarne i cenni impercettibili, silenziosi come battiti di ciglia: le passa la garza, le bende, il disinfettante rimasto nel flacone quasi vuoto. Come dosa le scorte mediche, Joan Greene dosa la voce asciutta e l’ampiezza dei propri gesti come se potesse centellinarle per durare più a lungo, dormire di meno e lavorare di più. I suoi turni a Marshall sembrano sempre più lunghi, l’ombra livida sotto i suoi occhi sempre più densa.

"Ti sei arruolato per morire?"

… Non si accorge che, una mano aperta contro la fronte gelida e sudata del soldato ferito, Joan è tornata a consumarlo con la severità abrasiva, brillante, degli occhi verdi come il cuore umido dell’agave. Lee deve frugarsi addosso con qualche virata nervosa delle pupille prima di trovare la traccia dello sguardo altrui lungo l’interno martoriato dei propri avambracci nudi, scintillanti di sudore. Rivolta la testa con uno scrollone nervoso, arricciando il labbro superiore in una smorfia tesa sul confine del ghigno.

"Ma chi cazzo ti credi di essere …"

"Il tuo ufficiale medico." – Joan non sorride; fissa Marshall con una severità altera, inoppugnabile, scolpita fra gli spigoli del viso magro in punta di coltello.

Lee trascina il palmo calloso di una mano contro la pelle indurita dai segni dell’ago. Deglutisce un mattone di saliva e di nausea, sostenendo la pressione degli occhi altrui con lo sfarfallare delle ciglia scure elettrizzate dall’astinenza.

"Una cannula da trasfusione. – Greene dispensa ordini con la calma di pietra di un generale; – Il tuo sangue fa schifo, ma è meglio di niente. Aiuterà questo bravo ragazzo a passare la notte."

Cerca la mano del soldato e la stringe fra le dita scarne, umide del sangue ripulito sommariamente contro il panno scuro della gonna, come se, più che confortarlo, dovesse assicurarsi che abbia qualcosa cui aggrapparsi per non scivolare nel gorgo nero della morte.
Insegue lo spostamento di Marshall con una scorsa lenta degli occhi, richiamandolo prima che sia oltre la portata della propria voce.

"Altri morti qui non mi servono, kiddow. Put yourself together."


 
Too many fallen, too many failed.